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Il Valzer dell’odio, a Vienna torna la caccia all’ebreo

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Il Valzer dell'odio, a Vienna torna la caccia all'ebreo

Della finis Austriae di rothiana memoria non resta più nulla. E a oltre ottant’anni dall’Anschluss nazista, quel passato affiora solo in qualche ricordo scabroso nelle menti più anziane. Per decenni, anche in Austria, il genocidio del popolo ebraico è stato rievocato nei discorsi ufficiali, nelle cerimonie commosse, nelle compunte omelie delle chiese. Ma dal 7 ottobre 2023, persino la retorica si è dissolta: al suo posto, una tensione incontrollata, un’ondata crescente di furia antisemita.

Partiamo dai numeri. La comunità ebraica austriaca conta circa 10.300 persone, lo 0,1% della popolazione totale. Presenza esigua, invisibile. Eppure, bersaglio preciso e sistematico. Solo nel primo semestre del 2025 Vienna ha registrato oltre 800 episodi antisemiti, quasi il triplo rispetto all’anno precedente (fonte: Israelitische Kultusgemeinde Wien, giugno 2025). Si va dalle minacce dirette alle scritte sui muri, dalle molestie online alle aggressioni fisiche. I bambini lasciano la casa senza kippah, le ragazze con il Magen David al collo vengono insultate in tram. La rassicurante quotidianità viennese — fatta di ordine, sobrietà, Kaffeehäuser eleganti e soavi torte Sacher — per quello 0,1% di cittadini si è trasformata in una trappola insidiosa.

La notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 2023 qualcuno ha appiccato il fuoco all’ingresso IV del cimitero ebraico di Vienna. Distrutte la sala delle cerimonie, una Torah, arredi sacri. Sui muri, svastiche e la scritta: «Hitler». Solo per miracolo — o per caso — non ci sono stati feriti o morti. Ma il messaggio è arrivato forte: «Siamo tornati».

A gennaio 2024, un sedicenne è stato arrestato: stava pianificando un attentato armato contro una sinagoga. Il movente? «Volevo colpire chi sostiene Israele». L’equazione è tornata a circolare: ebreo = sionista = colpevole.

Nel frattempo, nei cortei pro-Gaza si sventolano con fierezza le bandiere di Hamas e Hezbollah. Si grida «Zionists not welcome» e poi ci si affretta a precisare che no, non è antisemitismo, solo “critica a Israele”. Ma Oskar Deutsch, presidente della comunità ebraica, non ci sta: «È antisemitismo sfrenato. Il clima di tensione sta ispirando nuovi attacchi agli ebrei». Nessuna esagerazione. Solo una lucida presa d’atto: quando l’odio torna socialmente accettabile, culturalmente tollerato, politicamente mimetizzato, le sue vittime diventano di nuovo visibili — a loro insaputa.

Il governo austriaco ha reagito? Poco. Ha aggiornato la legge sui simboli vietati, includendo svastiche, bandiere di Hamas e loghi del terrorismo islamista. Ha lanciato un pacchetto contro l’odio online, ha firmato accordi con le piattaforme digitali. Ma tutto il resto manca. Manca un vero piano educativo. Manca la formazione per insegnanti e forze dell’ordine. Manca la vigilanza attiva nei quartieri, nelle università, nei centri sociali. Manca soprattutto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: l’antisemitismo resta antisemitismo, anche quando si traveste da antisionismo.

Mentre in Europa si discute su cosa sia “libertà d’espressione” e cosa “discorso d’odio”, le comunità ebraiche si chiudono, si difendono da sole. Gli odiati non sono più i superstiti della Shoah, ma i loro nipoti e pronipoti. Ragazzi adolescenti, figli di una nuova e più invisibile vulnerabilità.
L’Austria, come l’Italia e altri Paesi europei, ha un doppio dovere: per il proprio passato e per il proprio presente. Ma questo dovere resta carta straccia se non si traduce in azione, coraggio civile, responsabilità concreta. Non bastano le commemorazioni. Non bastano le fiaccole e le frasi rituali. Non basta dire «mai più» se poi si permette che accada ancora.

Il nostro Paese dovrebbe osservare. E imparare. Perché il ritorno dell’antisemitismo non è un problema austriaco. Non è solo tedesco, francese o svedese. È il sintomo profondo di una malattia che riguarda tutti. E che non si cura con le parole, ma con l’assunzione delle responsabilità. A ognuno la propria. Senza sconti né autossoluzioni. Che poi è il dovere più arduo per ogni essere umano, figuriamoci per la società tutta.


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