Centosessanta dei duecentocinquanta terroristi rilasciati nell’ultimo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele sono usciti di prigione da milionari. Non per vincite o eredità, ma perché una legge palestinese li paga mensilmente in base alla gravità del crimine e agli anni di detenzione. È il cosiddetto Pay to Slay, «paga per uccidere».
A spiegare il meccanismo è Maurice Hirsch, già procuratore militare israeliano in Giudea e Samaria e oggi collaboratore del Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs. L’Autorità Palestinese, ricorda, non assegna premi occasionali: esiste un sistema strutturato di salari. Ogni terrorista è trattato come un “dipendente pubblico” e riceve uno stipendio mensile che cresce con l’anzianità di “servizio”, cioè con gli anni di carcere. Chi è stato arrestato nel 2000 o nel 2001 è arrivato a percepire fino a 8.000 shekel al mese (circa 2.000 euro): una fortuna nei Territori.
Dopo vent’anni di prigione, molti di questi uomini hanno accumulato somme a sette cifre. Non solo: al momento della liberazione ricevono un’indennità di uscita e, oltre i dieci anni di pena scontata, un impiego garantito nella pubblica amministrazione. Anche grazie a questo sistema paradossale l’Autorità Palestinese conserva consenso tra ex detenuti per terrorismo e le loro famiglie.
Il meccanismo è noto da anni e prosegue grazie ai trasferimenti che Israele, secondo il Protocollo di Parigi degli Accordi di Oslo, effettua all’Autorità Palestinese sotto forma di tasse riscosse a suo nome. Ogni anno, tra mezzo miliardo e seicento milioni di shekel finiscono nelle mani di questi “martiri”, celebrati come eroi.
Nel 2011 gli stipendi dei prigionieri sono stati aumentati del 300 per cento. Oggi il compenso per un terrorista condannato all’ergastolo può superare quello di un medico, di un giudice o di un impiegato civile dell’Autorità stessa, che non distingue tra appartenenze: Fatah, Hamas o Jihad Islamica.
Hirsch parla di «un’assurdità burocratica che ha trasformato il terrorismo in un mestiere». E aggiunge: «La legge non prevede eccezioni: più lungo è il tempo trascorso in prigione, più alto è lo stipendio, e chi uccide di più guadagna di più».
Dietro ogni liberazione, dunque, non c’è solo un calcolo politico o di sicurezza: esiste un’economia della violenza, legalizzata e contabilizzata fino all’ultimo shekel. L’ex procuratore non risparmia critiche a Israele: «Abbiamo chiuso gli occhi di fronte a violazioni continue, all’incitamento all’odio nelle scuole, a fondi destinati al terrorismo, e tuttavia abbiamo continuato a trasferire denaro in nome di una pace che non è mai arrivata».
La pace comprata a rate si è rivelata un investimento fallimentare. Ogni attentato remunerato, ogni stipendio accreditato a un assassino, è un dividendo di quella stessa illusione. E ogni milione accumulato in carcere racconta quanto lontano possa spingersi la perversione di un sistema che remunera la morte come fosse lavoro pubblico.
Il salario del terrore: stipendi e premi ai prigionieri palestinesi liberati
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