Era solo questione di tempo: l’ONU ha esaminato le prove, le ha giudicate autentiche — e poi le ha archiviate. Secondo quanto rivelato dal Washington Free Beacon, un rapporto confidenziale dell’Ufficio ONU per i Servizi di Sorveglianza Interna (OIOS) riguarda diciannove dipendenti dell’UNRWA che Israele accusa di aver partecipato o collaborato all’attacco del 7 ottobre 2023 insieme a Hamas. Intercettazioni telefoniche, messaggi, tracciamenti cellulari: il dossier, scrive il giornale, include elementi che in almeno due casi indicano esplicitamente un «comandante di plotone di Hamas» e un «operativo» coinvolti negli assalti.
Eppure, pur riconoscendo che le informazioni fornite da Israele «appaiono verosimili», il rapporto interno conclude che sarebbero «insufficienti» a motivare il licenziamento di dieci funzionari operativi. Il risultato è un paradosso amministrativo: l’ONU accredita la sostanza delle evidenze ma ne dichiara l’irrilevanza disciplinare, applicando — secondo i critici — uno standard probatorio sproporzionato per un procedimento interno.
Gli episodi citati lasciano perplessi. In un caso, un impiegato UNRWA parla al telefono con il figlio infiltrato in Israele durante il massacro: il giovane confessa di aver rapito una donna israeliana e il padre lo rimprovera. Per Gerusalemme è una prova di complicità; per l’ONU «suona come la voce di un padre indignato». In un altro, un presunto comandante di Hamas riceve messaggi che lo convocano «al punto d’incontro prima dell’attacco», quindi l’ordine di portare «due missili anticarro». L’ONU annota la circostanza ma conclude che «non ci sono elementi certi che l’impiegato abbia agito di conseguenza».
La linea è sempre la stessa: se non si dimostra l’azione diretta, non c’è colpa. Ancora più discutibile è il perimetro temporale dell’indagine: il rapporto non esplora i legami strutturali tra UNRWA e Hamas oltre i fatti del 7 ottobre, rinunciando a verificare eventuali contiguità precedenti o successive. In agosto, basandosi proprio su queste conclusioni, le Nazioni Unite hanno annunciato il reintegro di dieci dipendenti indicati da Israele; e la Corte Internazionale di Giustizia ha poi utilizzato il medesimo impianto per autorizzare il ritorno dell’UNRWA alla gestione degli aiuti a Gaza, malgrado l’opposizione israeliana.
La vicenda ha allarmato anche Washington. L’Ufficio ispettivo dell’USAID (USAID OIG) ha avviato un’indagine per verificare se fondi pubblici americani stiano finendo a personale con possibili legami con Hamas e per impedire che funzionari “ripuliti” dall’ONU vengano ricollocati in altre agenzie internazionali finanziate dagli Stati Uniti. Un alto funzionario, citato dal Free Beacon, è tranchant: «L’ONU non è in grado di indagare su sé stessa. Se non interviene un organismo esterno, i contribuenti americani continueranno a pagare gli stipendi di terroristi travestiti da operatori umanitari».
Dall’interno del sistema ONU arrivano giudizi altrettanto severi. Un ex consulente legale di alto livello definisce «assurdo» lo standard probatorio adottato: per un procedimento amministrativo, sostiene, è stato imposto un livello di prova «più alto di quello richiesto in tribunale», rendendo di fatto impossibile qualsiasi sanzione. Ne risulta una sospensione della realtà in nome di un formalismo che finisce per proteggere l’istituzione da un serio esame di coscienza e, indirettamente, per minimizzare il rischio di infiltrazioni terroristiche nelle sue strutture operative.
Intanto, gli stessi funzionari accusati dai servizi israeliani di complicità con Hamas tornano a occuparsi di aiuti, logistica, scuole, distribuzione del cibo. Qui si colloca il cuore del problema: se l’UNRWA — la più grande agenzia umanitaria dell’ONU nell’area — non dispone di barriere solide contro la penetrazione delle reti jihadiste, diventa un bacino di reclutamento e una copertura funzionale all’ecosistema di Hamas. Un diplomatico occidentale, citato nel dossier, sintetizza la falla: «Non esiste alcun sistema per evitare che personale UNRWA legato a Hamas venga assunto da altre agenzie delle Nazioni Unite».
Il nodo, dunque, è duplice. Sul piano investigativo, si applica un criterio di prova che sterilizza l’azione disciplinare e scoraggia l’accertamento sostanziale dei fatti. Su quello organizzativo, manca una due diligence robusta: verifiche ex ante sull’integrità del personale, controlli incrociati con intelligence e forze di sicurezza, audit indipendenti sui flussi finanziari e sulle carriere interne. La combinazione di questi deficit produce un esito che appare politicamente miope e moralmente insostenibile.
La difesa della neutralità umanitaria non può diventare l’alibi per evitare responsabilità. Neutralità significa imparzialità nell’assistenza, non equidistanza tra vittime e carnefici. E se un’agenzia ammette che le informazioni «possono costituire una base fattuale» ma decide di non farne conseguire alcuna misura, il messaggio che invia al campo è devastante: la procedura prevale sulla verità, l’inerzia sulla prevenzione. È così che si logora la fiducia del pubblico e dei donatori, ed è così che si perde il controllo delle aree grigie dove prosperano i gruppi armati.
Nel frattempo, la guerra del 7 ottobre ha mostrato che la dimensione umanitaria e quella di sicurezza sono inseparabili. Chi gestisce scuole, ospedali, magazzini e convogli, gestisce anche potere sociale; e quel potere può essere cooptato, condizionato, intimidito. Per questo, la tracciabilità delle decisioni e la trasparenza sugli standard probatori non sono tecnicismi: sono la condizione minima per garantire che la macchina degli aiuti non diventi un moltiplicatore di rischio.
La domanda che resta sul tavolo è semplice: chi controlla i controllori? Se l’ONU non può o non vuole indagare sé stessa con rigore, allora l’unica via è una supervisione terza, dotata di accesso agli atti, poteri ispettivi e obbligo di pubblicazione dei risultati. Diversamente, si continuerà a confondere la neutralità con la rinuncia alla verità. E a chiamare «prudenza» ciò che, nei fatti, somiglia pericolosamente alla paura di guardare in faccia la realtà.
Il rapporto segreto dell’ONU che assolve Hamas
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