C’è un’immagine che racconta da sola il nostro tempo: l’ostaggio israeliano Rom Brasvlasky sul palco di Atreju, invitato da Giorgia Meloni, accolto da cinque standing ovation. Un uomo sopravvissuto all’inferno di Hamas che parla a un pubblico che fino a ieri sarebbe stato considerato distante, e che invece ascolta, si commuove, risponde con un calore inatteso. Accanto a lui Maurizio Molinari, per anni alla guida del quotidiano-simbolo della sinistra liberal, che lo intervista con una misura che non lascia indifferenti. È la fotografia di un’Italia che cambia pelle, che riscopre la gravità del terrorismo e riconosce, senza esitazioni, la legittimità della sofferenza ebraica. Ma soprattutto è lo specchio rovesciato di ciò che sta accadendo sull’altra sponda politica: la sinistra italiana sta perdendo la bussola, smarrendo il suo codice genetico, trasformando in ambiguità ciò che un tempo era identità.
Non si tratta più di esitazioni o goffaggini: è un allineamento culturale, progressivo e disinvolto, alla peggiore narrazione dell’antisemitismo contemporaneo. Un antisemitismo che oggi si presenta travestito da antisionismo, da diritti umani selettivi, da solidarietà unidirezionale. Il campo largo si fregia, anzi si ammantata di antisionismo come se fosse una medaglia civile, senza accorgersi che quel linguaggio è il vettore attraverso cui l’odio contro gli ebrei rientra nell’arena pubblica con un’agibilità che credevamo sepolta. Non si criminalizza più “l’ebreo”: si criminalizza “il sionista”, confidando che la sostituzione semantica renda il disegno più accettabile. Ma l’esito è lo stesso.
E il segno più evidente di questa deriva arriva non dalle frange esterne, ma dal cuore della tradizione culturale della sinistra. L’Arci, per decenni appendice ricreativa e culturale del Pci, del Pds, del Pd, ha stampato e distribuito adesivi che condannano la “Apartheid israeliana”. Una parola che, usata in questo contesto, falsifica la storia, umilia la verità e soprattutto alimenta l’odiosa idea che lo Stato ebraico sia intrinsecamente criminale, privo di legittimità. Ma davvero il percorso della sinistra italiana — quella nata con Umberto Terracini, Primo Levi, Alberto Moravia — può finire con le stesse categorie mentali di chi oggi rilegge Goebbels per diletto politico o diffonde teorie che ammiccano ai Protocolli dei Savi di Sion?
Eppure è ciò che sta accadendo. L’adesione acritica al lessico antisionista ha creato un cortocircuito morale che permette a pezzi del centrosinistra di sentirsi progressisti mentre adottano un vocabolario che ha radici nel peggior novecento europeo. Non chiamano più gli ebrei “nemici”: chiamano “colonialisti” gli israeliani. Non parlano più di complotti giudaici: parlano di “lobby sioniste”. Ma la musica è la stessa, solo resa più accettabile dall’estetica dei diritti umani usati come schermo. Però il grottesco non rende l’odio meno odioso. Né l’indicazione del nemico ebraico meno pericolosa.
Questo scivolamento ideologico si è visto in modo lampante nel dibattito sul ddl Delrio contro l’antisemitismo. Una proposta che, in qualsiasi Paese serio, sarebbe stata accolta come un atto di responsabilità democratica; qui, invece, è diventata un terreno minato di sospetti, distinguo, ritrosie. Lo ha detto con chiarezza Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, denunciando che in Italia gli atti antisemiti sono aumentati del 400% e che la solidarietà dopo il 7 ottobre è durata lo spazio di un mattino: «Siamo stufi di attacchi e ipocrisie. Serve un ddl condiviso». In un Paese normale, queste parole avrebbero fatto scattare un riflesso immediato di responsabilità. Nel nostro, hanno innescato una disputa interna al Pd, dove una parte del gruppo dirigente si è accartocciata su sé stessa pur di non urtare la sensibilità dei suoi settori più ideologizzati.
Lo aveva previsto Piero Fassino, che da ex segretario del Pds e cofondatore del Pd conosce bene la storia da cui proveniamo: «Il sionismo è nato a sinistra». Non per un vezzo retorico: fa sua la rivendicazione di una verità storica. La sinistra italiana — quella erede del socialismo europeo, quella che leggeva Grossman e Oz, che guardava a Israele come a una democrazia sorella, che difendeva gli ebrei non perché vittime ma perché cittadini liberi — oggi appare disposta a rinnegare quel patrimonio per sopravvivere ai propri demoni interni. Chi parla di antisemitismo viene guardato con sospetto. Chi denuncia gli eccessi dell’antisionismo viene accusato di voler “censurare la critica a Israele”. Chi difende il ddl Delrio viene trattato come un corpo estraneo.
E poi c’è il caso Francesca Albanese, che ha rivelato fino a che punto questa torsione identitaria sia penetrata. Le rivelazioni sulle frequentazioni con esponenti vicini a Hamas, sui convegni condivisi con personaggi legati all’organizzazione terroristica, sull’uso sistematico di un lessico politico intriso di ostilità verso Israele, hanno provocato una reazione durissima da parte della comunità ebraica e di una larga parte della politica italiana: una relatrice Onu che appare così schierata non può rappresentare un’istituzione che pretende neutralità. Lo hanno detto ambasciatori, rabbini, parlamentari, intellettuali: «L’Albanese non è imparziale. La sua propaganda fa eco alla retorica di Hamas». . La sinistra, invece, si è divisa tra chi la difende per riflesso ideologico e chi tace per opportunismo.
Il punto, ancora una volta, non è Albanese in sé, ma ciò che rappresenta: la resa della sinistra a un linguaggio che non le apparteneva e che ora, invece, ne plasma la postura pubblica. Il campo largo è diventato un campo indistinto dove antisionismo, antioccidentalismo e giustificazionismo verso l’estremismo palestinese si intrecciano senza più distinzione. Si parla di Israele come se fosse un regime totalitario; si evita di pronunciare la parola “antisemitismo” per non disturbare l’attivismo più radicale; si preferisce attribuire ogni responsabilità “al contesto”, una formula che serve solo a cancellare la realtà.
E mentre tutto questo accade, la scena di Brasvlasky sul palco di Atreju resta lì, a ricordare che l’opinione pubblica italiana sta andando altrove. Non verso la destra in quanto tale, ma verso un senso elementare di giustizia: il rifiuto del terrorismo, la difesa degli ostaggi, la condanna dell’odio antiebraico. Se la sinistra non riesce a starci dentro, non è perché è debole, ma perché ha tradito sé stessa. Ha dimenticato Terracini, Levi, Moravia. E ora, senza nemmeno accorgersene, rischia di ritrovarsi a citare, nelle forme, se non nei contenuti, gli stessi testi che un tempo avrebbe bruciato nelle piazze: Goebbels, i Protocolli dei Savi di Sion, le matrici dell’odio che l’antifascismo aveva giurato di combattere per sempre.
Il protocollo dei Savi anziani di Sinistra

