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Il paradosso del ritorno: Israele in guerra attira, non respinge

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 4 min
Il paradosso del ritorno: Israele in guerra attira, non respinge

Quando il popolo ebraico si trovò alle porte della terra promessa, non tutti scelsero di entrarvi. Le tribù di Gad, Ruben e metà di quella di Manasse, affascinate dai pascoli della Transgiordania, preferirono restare al di fuori di Israele. La loro scelta, pur legittimata da Mosè a condizione che partecipassero alla conquista insieme ai fratelli, si rivelò col tempo fragile: separate dal cuore del popolo ebraico, furono le prime a cadere sotto gli attacchi nemici. La loro sicurezza apparente si dissolse in isolamento e vulnerabilità.

Quella storia antica si riflette oggi in un modo che nessuno avrebbe potuto prevedere. Israele è un Paese in guerra, assediato a sud da Hamas, a nord da Hezbollah, sotto la minaccia costante dell’Iran e la pressione crescente di un’opinione pubblica internazionale sempre più ostile. Eppure, nonostante tutto, gli ebrei dell’Occidente stanno tornando a casa. In un mondo che si aspetterebbe esodi, fughe e richieste d’asilo, Israele vive il fenomeno opposto: attira come una calamita.

Dal 7 ottobre 2023, giorno del massacro compiuto da Hamas, l’aliyah dai Paesi occidentali ha registrato un’impennata. Le richieste dagli Stati Uniti sono raddoppiate, quelle dal Canada sono aumentate del 150%. In Francia, dove l’antisemitismo è esploso in maniera inquietante, le richieste di trasferimento in Israele sono cresciute di oltre il 500%. Anche in Germania, Italia e Regno Unito, pur con numeri più contenuti, il trend è evidente. Non è una fuga disordinata, ma una decisione consapevole: vivere, nonostante il pericolo, nel cuore della propria identità.

Questo fenomeno è unico nella storia moderna. Mai si è visto un Paese in guerra diventare rifugio, patria desiderata, culla di sicurezza. Il motivo non è solo materiale. Israele non è semplicemente “più protetto” — anzi, a uno sguardo superficiale sembrerebbe il contrario. Ma è l’unico luogo dove la vita ebraica non deve giustificarsi, non deve chiedere permesso. È l’unico spazio in cui l’essere ebrei non espone a insulti, minacce, violenza o vandalismi. Dove i bambini possono indossare la kippah senza paura, e gli adulti portare un tallèd in borsa senza doversi guardare alle spalle.

Proprio come le tribù della Transgiordania, gli ebrei della diaspora oggi si trovano esposti. I pascoli sicuri dell’Occidente — i quartieri eleganti di Parigi, i campus di New York, le sinagoghe silenziose di Berlino e Milano — si sono trasformati in zone d’ombra. L’odio antiebraico, spesso mascherato da antisionismo, ha ripreso forza. La cultura progressista, un tempo rifugio degli ebrei, ora li marginalizza. Le logiche dell’Islam politico, alimentato da un’immigrazione sempre più degradata, e del radicalismo identitario, nutrono narrazioni tossiche.

Per questo il ritorno a Israele non è solo un atto di solidarietà, ma di sopravvivenza. È il compimento, paradossale e potente, del comando biblico: «I vostri fratelli andranno a combattere, e voi starete qui?». Oggi gli ebrei scelgono di combattere — non solo con le armi, ma con la propria presenza, la propria appartenenza, il proprio futuro.

Eppure, questo ritorno ha un prezzo. Le comunità ebraiche della diaspora — un tempo motori culturali, economici e spirituali delle società occidentali — rischiano di svuotarsi. Con loro potrebbero svanire tradizioni secolari, lingue, melodie, riti familiari. L’universalismo ebraico, che ha attraversato secoli di esilio senza mai spegnersi, si ritira verso Gerusalemme, lasciando dietro di sé una diaspora più fragile e forse meno visibile.

Israele, in questo scenario, si conferma baluardo. Ma un baluardo, per quanto forte, non può reggere da solo il peso di un’intera civiltà. Il ritorno alla Eretz Israel è una benedizione, ma non dovrebbe avvenire per paura. È un grido d’allarme, che chiede al mondo di guardarsi dentro. Perché se la guerra spinge gli uomini a fuggire, ma gli ebrei a tornare, significa che qualcosa di profondo e inquietante si è incrinato nei valori dell’Occidente.


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