L’ultimo round di negoziati tra Israele e Hamas è sull’orlo del fallimento. I giornali e gli analisti parlano di stallo, di impasse, di intransigenza dell’una e dell’altra parte. E a prima vista, è difficile sostenere il contrario. Hamas è lacerato da divisioni interne, con una leadership a Gaza determinata a resistere, meno incline al compromesso rispetto all’ala politica in esilio, che sembra mostrare cedimenti. Israele è guidato da un gabinetto di guerra sempre più contraddittorio, che vede un Netanyahu in crisi, schiacciato tra un’estrema destra che pretende la vittoria totale – senza peraltro definirla in modo chiaro – e una componente centrista che spinge per una soluzione negoziale alla crisi degli ostaggi.
La posizione americana, che promuove un ritiro graduale delle truppe e lo scambio di ostaggi con prigionieri palestinesi, appare al tempo stesso troppo e troppo poco: troppo ambiziosa per essere accettata senza riserve, ma troppo provvisoria per offrire reali garanzie. Il negoziato potrebbe dunque fallire. Ma, paradossalmente, ciò non sarebbe la fine del percorso. E forse nemmeno un vero e proprio fallimento della diplomazia.
Un’altra lettura – magari eccessivamente ottimistica – ritiene che potremmo non trovarci di fronte a una rottura, ma a una ricalibratura dei negoziati. Una pausa diplomatica mascherata da collasso. Una negoziazione per esaurimento. Il vero teatro della diplomazia raramente si svolge nei comunicati ufficiali o nei discorsi trasmessi in diretta. Vive nei contatti silenziosi tra i servizi di intelligence, nei vertici discreti a Doha, nei messaggi criptati che vanno dal Cairo a Gerusalemme passando per Ginevra. Anche ora, mentre il canale ufficiale sembra bloccato, i contatti continuano serrati. Le intese umanitarie vengono coordinate. Carburante, viveri e medicinali entrano a flussi controllati. L’impalcatura diplomatica non è crollata: si è solo spostata in luoghi meno visibili.
E dietro questa apparente impasse, sta prendendo forma qualcosa di più ampio. Washington, insieme ad attori regionali come Qatar, Egitto e forse Arabia Saudita, sta preparando il terreno per ciò che verrà dopo questa guerra. Non solo un “day after” per Gaza, ma una nuova pagina per tutto il Medio Oriente. Emergono ipotesi su un’amministrazione controllata per Gaza, sostenuta da Stati arabi privi di legami diretti con Hamas. Si parla di zone di investimento internazionale, di garanzie di sicurezza regionale, e di una possibile ripresa del percorso di normalizzazione con l’Arabia Saudita (e dunque con il mondo arabo). Il tutto racchiuso in una più ampia riorganizzazione delle alleanze. Non si tratta soltanto di peacebuilding contestuale al conflitto israelo-palestinese, come è stato inteso negli ultimi quarant’anni, ma di un cambiamento radicale dell’architettura regionale. E non è escluso che questo progetto possa richiedere anche che l’attuale negoziato fallisca, quanto basta per dimostrare che nessuna delle due parti può trarre un reale vantaggio senza un ripensamento delle geometrie regionali.
Questa ipotesi si fa ancora più plausibile se non ci focalizziamo unicamente su Gaza. Le recenti operazioni di Israele lungo il confine siriano, volte a proteggere la minoranza drusa da attacchi portati avanti dal regime e dalle milizie, supportano l’ipotesi di un cambio strutturale. Non si tratta solo di interventi tattici, come accaduto in passato, ma strategici. Proteggendo una comunità vulnerabile nel sud della Siria, Israele lancia un segnale: Gerusalemme sta ragionando oltre Hamas, oltre Gaza, oltre il calcolo immediato e il conflitto israelo-palestinese. Lo Stato ebraico si sta riposizionando per una nuova immagine, dove la difesa delle minoranze, la deterrenza transfrontaliera e la costruzione di coalizioni convergono a formare il profilo di un attore indispensabile per la stabilità regionale. Talmente indispensabile da far accettare anche l’abbandono del supporto alla causa palestinese. Il fronte druso può sembrare scollegato dalle trattative sul cessate il fuoco, ma in realtà risponde alla stessa logica di fondo: preparare un ordine post-bellico, anche prima che la guerra finisca ufficialmente.
Gli Stati Uniti questo lo capiscono. A Washington sanno che questo conflitto, per quanto devastante, può servire da leva per ridisegnare la scacchiera regionale. L’amministrazione Trump, in modo spesso goffo e vistoso, conta sul fatto che tanto Hamas quanto Israele stiano esaurendo le opzioni. Un negoziato fallito oggi può preparare il terreno per un’intesa più ambiziosa domani, che non sia fondata sulla comprensione reciproca, ma sulla necessità di contenere l’instabilità.
Dunque sì, questo round di trattative potrebbe probabilmente fallire. Ma il fallimento potrebbe essere necessario e persino utile. La vera posta in gioco non è se la proposta attuale verrà accettata. È l’emergere di un Piano B meno incentrato sulla coesistenza, e più sulla stabilizzazione di Gaza sotto una nuova amministrazione e sulla ripresa della normalizzazione regionale sotto la regia americana e saudita. La domanda più interessante non è se i colloqui avranno successo, ma se la regione è pronta per ciò che verrà dopo. In altre parole: se la necessaria agonia di questo momento costringerà finalmente tutti gli attori ad accettare un futuro diverso.
Il negoziato che (forse) deve fallire: Israele, Hamas e la posta in gioco globale Il negoziato che (forse) deve fallire: Israele, Hamas e la posta in gioco globale Il negoziato che (forse) deve fallire: Israele, Hamas e la posta in gioco globale