L’accordo di pace per Gaza firmato il 13 ottobre a Sharm el-Sheikh, alla presenza di numerosi leader arabi, islamici e occidentali — tra cui la nostra premier Giorgia Meloni, unica donna al vertice — rappresenta una svolta negli equilibri geopolitici del Medio Oriente ed è un successo significativo dell’amministrazione Trump. Come ha riconosciuto Bill Clinton: «Il presidente Trump, la sua amministrazione e gli altri attori regionali meritano un grande riconoscimento per aver mantenuto tutti coinvolti fino al raggiungimento dell’accordo».
Anche Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha partecipato al vertice e si è intrattenuto con il presidente americano. Trump aveva invitato alla firma anche l’Iran, che però ha rifiutato di partecipare: è rimasto l’unico Paese a dichiararsi contrario al piano Trump-Blair, mentre Cina e Russia lo hanno appoggiato.
Senza gli Stati Uniti e senza Trump l’accordo non sarebbe stato raggiunto. Ciò smentisce due assunti diffusi. Il primo: che l’amministrazione Trump avrebbe abbandonato l’Occidente ripiegando su un isolazionismo di scuola. Falso: il presidente non ha mai abbandonato Israele — che è, per storia e valori, un pilastro dell’Occidente. Non solo: ha esercitato deterrenza e, laddove ritenuto necessario, forza contro il programma nucleare iraniano e contro le reti di influenza di Teheran, che finanziano e armano le proprie «proxy» (Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, gli Houthi in Yemen).
L’obiettivo dichiarato dell’Iran e dei suoi proxy era «cancellare Israele dalla carta geografica». Israele, con il proprio coraggio e con l’aiuto americano, ha respinto quel disegno. Secondo assunto smentito: il presunto declino degli USA come superpotenza. Al contrario, Washington ha dimostrato superiorità militare e capacità di regia geopolitica, aprendo un dialogo strutturale fra Occidente e gran parte del mondo arabo e islamico (Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Giordania, Pakistan, Indonesia). Questo ridisegna gli equilibri regionali e colloca la sicurezza di Israele dentro un quadro di sviluppo e crescita di tutta l’area.
È, in sostanza, il rilancio degli Accordi di Abramo — il maggior successo di politica estera della prima presidenza Trump — che Hamas cercò di sabotare con i massacri del 7 ottobre, vigilia dell’ipotizzata adesione saudita. Oggi, dopo il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi in mano a Hamas e dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, le priorità sono due: assistenza alla popolazione di Gaza, stremata da oltre due anni di guerra, e disarmo di Hamas. La prima dipende dalla seconda: per troppo tempo una quota rilevante degli aiuti è stata intercettata dai terroristi, alimentando mercato nero e arsenali.
Il destino di Hamas resta dunque la principale incognita del piano di pace: è evidente che la prospettiva di uno Stato palestinese può esistere solo se non è — e non diventa — uno Stato terrorista. In questa cornice va letta anche la scelta di Giorgia Meloni e dell’Italia: non seguire Francia e Gran Bretagna nel riconoscimento “tout court” dello Stato di Palestina, ma condizionare ogni sostegno al disarmo dei gruppi terroristici, per evitare che la Palestina si trasformi in uno Stato di terroristi.
Saggia, infine, la decisione della premier di restare saldamente ancorata agli Stati Uniti e al loro presidente, oggi il vero vincitore della pace. Riaffermare il legame atlantico è un bene per l’Italia — per sicurezza, economia e credibilità internazionale. La pace, qui e ora, è possibile solo dentro un ordine che garantisca Israele e sottragga Gaza alla logica del terrore.
Israele, Trump e la svolta di Sharm el-Sheikh: pace possibile solo senza terrorismo
Israele, Trump e la svolta di Sharm el-Sheikh: pace possibile solo senza terrorismo

