“Mai più” è diventata una parola vuota. Una formula che si ripete stancamente da anni, ogni 27 gennaio, quando si ricorda la Shoah: lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, macchia indelebile sulle coscienze dell’Europa. Vivo nel quartiere ebraico di Francoforte: ogni marciapiede ricorda le deportazioni attraverso le pietre d’inciampo.
Eppure, nella Germania che più di ogni altro Paese ha saputo fare i conti con la propria storia di sterminio, lo scorso 9 novembre — una data che per i tedeschi tiene insieme il 1918, il 1938 e il 1989 — il Presidente della Repubblica federale, Frank‑Walter Steinmeier, ha detto durante la commemorazione: “Ottantasette anni dopo i pogrom del 9 novembre 1938, l’abisso della storia tedesca, l’antisemitismo non è tornato, perché è sempre stato lì. Ma dal 7 ottobre 2023 ha registrato un’impennata anche qui in Germania.
Proviene dalla destra, dalla sinistra, dal centro, è presente tra gli immigrati musulmani. Gli ebrei hanno paura di mostrarsi apertamente; i genitori ebrei accompagnano i figli a scuola con una sensazione di disagio; gli studenti ebrei sono oggetto di ostilità; gli uomini con la kippah vengono aggrediti in pieno giorno. Proprio noi, discendenti di coloro che il 9 novembre 1938 furono autori o spettatori indifferenti, incapaci di solidarietà con i vicini ebrei, o che distolsero lo sguardo. Proprio noi non riusciamo a porre fine a questo antisemitismo”.Pensate: in Germania! Nei giorni scorsi, su queste pagine, Stefano Parisi ha lanciato una riflessione che accolgo con interesse: “L’Italia ha istituito prima degli altri Paesi il 27 gennaio come Giorno della Memoria; nel ‘mai più’ ostentato nei discorsi delle autorità, nei film sulla Shoah, nelle visite delle scolaresche ad Auschwitz, si mostrava pietà per gli ebrei sterminati.
Ma non appena gli ebrei hanno reagito al nuovo tentativo di sterminio, si sono sollevate indignazione e condanna.” Ieri, sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, ha scritto: “Per molti, questo ‘mai più’ è diventato una formula vuota, dietro cui ci si trincera per apparire irreprensibili per il resto dell’anno”. Ha ragione Stefano Parisi: oggi quella formula è diventata ipocrisia.Dopo il 7 ottobre e la reazione degli ebrei a un nuovo pogrom, non possiamo più fingere che quel “mai più” fosse per sempre. L’antisemitismo è tornato violento e preponderante nelle nostre società occidentali: nelle vite quotidiane degli ebrei, nelle manifestazioni di piazza, nelle università, nei luoghi di cultura, nella politica.
Non ci voltiamo dall’altra parte, non rimaniamo silenti. Non smetteremo mai di lottare.Per questo voglio sostenere l’appello che Lucetta Scaraffia ha lanciato dal palco della manifestazione del 30 ottobre scorso a Roma: chiediamo alle istituzioni che il 27 gennaio 2026 diventi un giorno di silenzio, fuori dalle ipocrisie e dalle commemorazioni di rito. Smettiamo di pronunciare “mai più” solo il 27 gennaio: quel “mai più” è morto, e pesa sulle nostre coscienze. Rendiamo il prossimo 27 gennaio un momento di riflessione autentica. Chiediamo a scuole, università e luoghi di cultura di dedicare dieci minuti di silenzio e poi di riempire, come propone Scaraffia, quel silenzio con nuovi progetti e nuove proposte per costruire anticorpi contro l’antisemitismo, degni di questo tempo.
Il “mai più” svuotato
Il “mai più” svuotato

