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Il lupo a guardia del gregge: perché affidare a Hamas la “sicurezza” è un’illusione pericolosa

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 4 min
Il lupo a guardia del gregge: perché affidare a Hamas la “sicurezza” è un’illusione pericolosa

Da settimane, nelle capitali occidentali, circola una formula tanto elegante quanto insensata: “affidare a Hamas compiti di sicurezza in una fase di transizione”. Suona bene nei comunicati stampa e nei talk show, ma nella realtà di Gaza è grottesca: chiedere a Hamas di garantire l’ordine pubblico equivale ad affidare la sicurezza di una banca a chi l’ha appena rapinata.

Dopo il cessate il fuoco, la Striscia non ha conosciuto la pace, bensì una nuova forma di violenza interna. Hamas, indebolito ma non sconfitto, ha avviato una campagna di repressione feroce per riaffermare il controllo su un territorio distrutto. Arresti, esecuzioni, scontri tra clan e milizie locali: tutto in nome della “sicurezza”. Una sicurezza che, nella retorica del movimento, coincide con la totale sottomissione della popolazione. Lo si è visto a Gaza City, a Rafah, a Khan Younis, dove interi quartieri sono diventati feudi in cui le forze di Hamas “ripristinano l’ordine” eliminando oppositori e presunti collaborazionisti. Il risultato è un sistema che non si regge sulla legalità, ma sulla paura.

Hamas è purtroppo sopravvissuto all’offensiva israeliana per ritrovarsi a governare un deserto di macerie e diffidenza. Il movimento ha subito danni ingenti, ma il suo apparato repressivo — polizia, intelligence, milizie — resta in gran parte intatto e ora pretende di essere riconosciuto come interlocutore per la sicurezza della futura Gaza “postbellica”. È il paradosso che quasi nessuno osa denunciare apertamente: trasformare un’organizzazione terroristica in garante dell’ordine significa legittimarla politicamente e condannare i palestinesi a un’eterna spirale di controllo e violenza.

Eppure la tentazione di chiudere un occhio è forte. Le cancellerie occidentali, che da anni si indignano per ogni presunta “deriva autoritaria” a Washington, oggi trovano perfettamente accettabile trattare con chi ha costruito un regime teocratico e carcerario. Quando l’autocrate indossa una kefiah invece di una cravatta, la democrazia diventa improvvisamente un concetto negoziabile. È la stessa ipocrisia che consente di accusare Trump di sognare la monarchia e, nello stesso tempo, considerare Hamas un possibile partner di stabilità.

La verità è che una vera transizione a Gaza non esiste e non potrà esistere finché il monopolio della forza resterà in mano a chi la usa come strumento ideologico. Hamas non è solo un gruppo armato: è una rete sociale, religiosa ed economica che ha radicato il proprio potere in ogni aspetto della vita quotidiana. Smantellarla richiede tempo, risorse e — soprattutto — volontà politica. Ma l’Occidente, terrorizzato all’idea di “imporre” un ordine, preferisce illudersi che Hamas possa mutare in una responsabile polizia di quartiere, magari dopo qualche seminario finanziato dall’UE e con la benedizione di Doha.

Intanto, sul terreno, il caos cresce. Clan rivali, fazioni islamiste, gruppi criminali: Gaza è un mosaico di autorità contrapposte, ciascuna con le proprie armi, regole e interessi. L’idea di una generica “forza di sicurezza locale” non è solo ingenua, è pericolosa: significa lasciare che l’instabilità si consolidi dietro la facciata di un’autonomia di comodo.

Se davvero si vuole una transizione, servirà un intervento internazionale serio: una presenza di sicurezza terza, capace di proteggere la popolazione e di disarmare gradualmente le milizie. Ma questa parola — intervento — fa paura. È più comodo immaginare un’auto-riforma di Hamas.

Affidare a Hamas la sicurezza significa consegnargli il diritto di decidere chi vive e chi muore “in nome dell’ordine”. È la stessa logica che, per anni, ha soffocato ogni possibilità di rinascita civile. La transizione di Gaza sarà lunga e dolorosa, ma non può cominciare finché il lupo resta il custode del gregge. E chi, in Occidente, continua a fingere di non capirlo non è ingenuo: è complice.


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