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Il fanatismo inconsapevole (?) di Mancuso

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Il fanatismo inconsapevole (?) di Mancuso

L’articolo «I due volti del fanatismo religioso», apparso su La Stampa il 13 luglio, ha scioccato molti ebrei italiani. Non solo per i contenuti espressi dal teologo Vito Mancuso, ma anche perché la redazione del noto quotidiano torinese li ha ritenuti degni di essere pubblicati a tutta pagina.

L’articolo è stato giustamente accusato di antisemitismo, ma ciò che ha colpito molti è il modo in cui Mancuso riprende argomenti propri dell’antigiudaismo classico di matrice cattolica. Il primo è la teologia della sostituzione; il secondo vede l’elezione divina di Israele come radice di una teologia della prevaricazione e, addirittura, dell’annichilimento degli altri popoli.

Se analizziamo il testo, esso si articola in tre parti.

Nella prima, dopo aver accusato parte del governo israeliano di intenzioni genocidarie, Mancuso afferma di sapere che l’ebraismo si articola in due dimensioni: una spirituale, che lui apprezza, e una politica, che condanna aspramente. La dimensione spirituale sarebbe, secondo lui, l’essenza stessa dell’ebraismo.

Già qui sorgono i primi problemi: Mancuso, d’emblée, riduce a nota a margine un aspetto altrettanto essenziale dell’identità ebraica, ovvero l’appartenenza a un popolo e il legame con la terra di Israele, Gerusalemme e Sion. L’ebraismo non è solo una religione, e men che meno solo una pratica spirituale. Da anni, come ebrei, ribadiamo la complessità e l’articolazione della nostra identità, ma evidentemente restiamo «vox clamantis in deserto» — per citare un noto versetto di Isaia, ripreso anche da quei Vangeli tanto cari allo stesso Mancuso.

Nella seconda parte, il teologo si addentra a spiegare in cosa consista l’essenza della spiritualità ebraica:
«Questo stare dalla parte dei deboli nel nome dell’etica è ciò che Oz denomina ‘fiamma interiore dell’ebraismo’. È il medesimo messaggio veicolato dall’ebreo Gesù, che legava intrinsecamente amore di Dio e amore del prossimo».
Mancuso assimila l’ebraismo al messaggio etico biblico, espresso nei precetti religiosi che in ebraico chiamiamo mitzvot ben adam lechaverò (fra l’individuo e il prossimo). Dopo aver escluso dall’identità ebraica l’appartenenza al popolo e a una terra, ora ne esclude anche l’aspetto rituale, quello che si esprime nelle mitzvot ben adam leMakom (tra l’ebreo e Dio).

Ora si capisce perché ho citato la teologia della sostituzione: se l’essenza dell’ebraismo coincide con il messaggio evangelico dell’amore per il prossimo, allora l’ebraismo viene riassorbito nel cristianesimo. Non servono più gli ebrei, né la Torà, né il loro ruolo di «luce per le nazioni», perché tutto ciò che conta sarebbe già contenuto nel messaggio di Cristo. La vecchia alleanza è sostituita dalla nuova. I cristiani diventano il nuovo Israele. È una teologia della sostituzione in piena regola, di stampo antigiudaico, antica di duemila anni e ancora presente, seppur in forma attenuata, in alcuni documenti del Concilio Vaticano II.

Ma la parte peggiore dell’articolo, la terza, deve ancora arrivare.

Con una dinamica psicoanalitica che ricorda la proiezione freudiana, Mancuso attribuisce agli ebrei la volontà di eliminare altri popoli e culture religiose, e individua le radici di questa presunta volontà nella dottrina dell’elezione e nella teologia ebraica.

In pieno corto circuito logico con quanto detto in apertura, Mancuso si ricorda all’improvviso che gli ebrei non sono solo una religione, ma anche una nazione. Questo aspetto identitario viene da lui definito «israelismo».

Scrive: «Esattamente per questo, nella Bibbia ebraica, accanto alla spiritualità della solidarietà, vi è una ideologia del potere e dell’oppressione nazionalista e razzista verso altri popoli, che partorisce i molti Ben Gvir. Di tale israelismo vi sono ampie attestazioni nella Bibbia».

Dopo queste affermazioni sconcertanti, Mancuso cita un passo del Deuteronomio (capitolo 7), consapevole del rischio insito nell’usare la Scrittura fuori dal proprio contesto ermeneutico. Poco importa che la tradizione esegetica ebraica abbia speso secoli per chiarire il concetto di elezione e, in particolare, il significato di essere segulà — un tesoro prezioso. Poco importa che la relazione tra Israele e Dio comporti responsabilità più che privilegi.

In poche righe, il Primo Testamento torna ad essere — per Mancuso — la scrittura del «Dio vendicativo» alleato di un popolo violento e di «dura cervice». Il peccato originale dell’ebreo è quello di appartenere a un popolo percepito come minaccia.

L’antigiudaismo diventa antisemitismo e si rivela, infine, come antisionismo. Per Mancuso, l’esito più grave dell’«israelismo» è proprio il legame tra ebrei e Israele: la massima espressione del volto politico dell’ebraismo che egli condanna con tanta veemenza.

Erano anni che non si leggeva, da parte di un teologo cattolico solitamente aperto e dialogante, un testo così intriso di antigiudaismo e antisemitismo. Personalmente, auspico che molte voci — non solo dal mondo ebraico, ma anche da quello cristiano — si levino in aperto dissenso con le parole di Vito Mancuso, e a favore di quel rispetto reciproco e quel dialogo che hanno caratterizzato per anni le relazioni tra ebrei e cristiani in questo Paese.




Rav Martina Yehudit Loreggian

Rabbina della Sinagoga Progressiva Lev Chadash – Milano


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