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Il drappo rosso sulla ricostruzione: come Pechino vuole mettere piede a Gaza

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
Il drappo rosso sulla ricostruzione: come Pechino vuole mettere piede a Gaza

Dietro il rumore delle bombe e le macerie della Striscia, si muove un attore silenzioso ma ambizioso: la Repubblica Popolare Cinese. La guerra ha lasciato un fabbisogno stimato in decine di miliardi di dollari per infrastrutture e servizi; Pechino vi entra con la consueta combinazione di prezzi aggressivi, sussidi pubblici e logistica integrata.

Ad aprile un bando della United Nations Office for Project Services (UNOPS) per moduli abitativi mobili — cabine con soggiorno, letto, bagno e servizi — è stato vinto da un’azienda cinese con un’offerta inferiore del 50–60% rispetto al secondo classificato. Non un episodio marginale: è l’ingresso nella partita non da subappaltatore, ma da protagonista. In parallelo, un altro bando per 45.000 unità ha mostrato che molte offerte più competitive provenivano da imprese palestinesi o egiziane che, però, utilizzavano componenti made in China. Dove Israele puntava a conservare un controllo diretto sui flussi e sugli standard della ricostruzione, Pechino sceglie un ingresso indiretto: forniture, subforniture, assemblaggi.

I vettori del vantaggio sono noti: sussidi all’export, costi logistici calmierati, filiere capaci di produrre su misura anche in contesti degradati. A questo si somma la copertura diplomatica. Pechino ha ribadito che la Striscia è «parte inseparabile del territorio palestinese», rilanciando la soluzione a due Stati e proponendosi come mediatore-ricostruttore. La linea politica non si limita alle dichiarazioni: è la cornice che legittima l’attivismo economico.

Sul terreno, la cerniera resta l’Egitto e, in particolare, il valico di Rafah. Qui opera l’imprenditore beduino Ibrahim al-Organi, soprannominato il “re di Rafah”. Le sue società sono snodo per le importazioni verso Gaza: fonti locali indicano cooperazioni operative con imprese cinesi, con assemblaggi nel Sinai e successivo trasferimento nella Striscia. Il risultato è una catena d’approvvigionamento ibrida: capitali e componenti cinesi, intermediazione egiziana, sbocco palestinese.

Per Israele questo scenario comporta una perdita di grip: dal quasi-monopolio di fatto sulle leve della ricostruzione (quindi su standard, priorità, relazioni) si passa a un modello in cui un grande attore esterno si impone per scala e prezzo. Non è solo economia: è geopolitica applicata. L’Occidente continua a immaginare Qatar, Turchia, Emirati come principali sponsor e mediatori; Pechino preferisce il profilo dell’architetto silenzioso, sotto un ombrello triplo: diplomatico (dichiarazioni e riconoscimenti), logistico (facilitazioni all’export), operativo (gare, componentistica, subappalti).

Per Italia ed Europa questo significa che la ricostruzione non sarà soltanto un business, ma un banco di prova delle alleanze nel Mediterraneo allargato. Tre domande, dunque, diventano cruciali:

Quale ruolo può giocare l’industria europea se il baricentro materiale della ricostruzione è cinese?

Quanta influenza normativa e amministrativa potrà esercitare Pechino su standard, appalti, compliance?

L’ingresso cinese è neutro o veicola un modello politico-economico — infrastrutture in cambio di influenza — già visto altrove?

Intanto la macchina cinese procede per fili sottili. Il “drappo rosso” non sventola: lega imprese, subfornitori, corridoi d’importazione, alleanze locali. È un investimento di medio-lungo termine in un luogo dove l’“emergenza” rischia di essere permanente. Se il piano riuscirà, quando cliniche e scuole saranno ricostruite, tetti rifatti e strade riasfaltate, l’ombra del dragone sarà già piantata nel sottosuolo della Striscia. E lì la ricostruzione, più che una rinascita, potrà diventare una nuova forma di influenza — stratificata, resiliente, difficilmente reversibile.


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