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Il Corano e la Terra d’Israele: quando il testo sacro smentisce la propaganda

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 3 min
Il Corano e la Terra d’Israele: quando il testo sacro smentisce la propaganda

È quasi paradossale dirlo, e proprio per questo il paradosso funziona bene per smontare un’intera narrativa. Se si prendesse sul serio il Corano, si dovrebbe riconoscere che esso afferma con chiarezza che il legame tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele non nasce nel XIX secolo, ma è riconosciuto all’interno della stessa rivelazione islamica. È il Corano a parlare dei Figli di Israele come destinatari della Terra Santa: «O popolo mio, entrate nella Terra Santa che Dio vi ha assegnato». (Sura 5:21). E ancora: «Dopo di lui dicemmo ai Figli di Israele: “Abitate la terra”». (Sura 17:104).

Non si tratta di ideologia né di una forzatura politica. È un’affermazione teologica che riconosce l’antichità e la legittimità del rapporto ebraico con quella terra. Un hadith spesso citato nella tradizione della sira ricorda inoltre che il Profeta riconosceva agli ebrei un legame profondo con la loro rivelazione e con la loro storia: «Lasciateli, perché essi sono il popolo del Libro e la terra appartiene a Dio, che la dà a chi vuole tra i Suoi servi». (riportato nelle raccolte tradizionali relative ai rapporti con gli ahl al-kitāb).

Questo non significa, evidentemente, che il Corano “anticipi” il moderno Stato di Israele, né che possa essere letto come una giustificazione diretta dell’assetto politico contemporaneo. Significa però che la narrazione che descrive gli ebrei come estranei o come recenti arrivati è in contraddizione non solo con la Torà, ma con la stessa rivelazione islamica. Ed è proprio questo scarto tra testo sacro e propaganda a risultare rivelatore.

Mentre oggi una parte del discorso pubblico tende a negare radicalmente ogni radicamento ebraico in quella terra, il Corano non solo non lo nega, ma lo presuppone. La sua teologia non è costruita sull’espulsione o sulla cancellazione, bensì sulla continuità di un rapporto storico e spirituale.

Chiunque voglia proporre una posizione equilibrata sul Medio Oriente dovrebbe partire da qui. Non si costruisce un’analisi seria, né tantomeno un progetto di pace, negando la storia dell’altro. Il riconoscimento coranico del ruolo dei Figli di Israele nella Terra Santa non abroga il diritto dei palestinesi a una vita dignitosa, né cancella ingiustizie e sofferenze. Ma impone di riconsiderare il modo in cui la questione viene narrata. Definire Israele come un’entità “senza radici” non è una posizione politica: è una rimozione culturale che non trova riscontro né nei testi occidentali né in quelli islamici.

È sorprendente constatare che, in un’epoca in cui la retorica estremista pretende di separare in modo assoluto i destini religiosi e politici della regione, proprio il Corano smentisca le letture che vogliono negare agli ebrei un legame originario con quella terra. Non serve manipolare il testo. Basta leggerlo. La pace richiede realismo, e il realismo comincia dal non cancellare ciò che anche le fonti sacre dell’Islam riconoscono apertamente.

Forse è questo il punto più ironico di tutti: per confutare una certa propaganda antisionista, talvolta basta aprire il Corano.


Il Corano e la Terra d’Israele: quando il testo sacro smentisce la propaganda
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