La notizia che la San José State University abbia licenziato una professoressa tenured per aver partecipato e sostenuto attivamente le proteste pro-Palestina non è il trionfo della censura, come alcuni raccontano. È invece il sintomo di una malattia molto più profonda: la trasformazione dell’università americana in un’arena permanente di militanza politica, dove l’impegno ideologico ha spesso sostituito la missione educativa. E dove l’antisemitismo, mascherato da attivismo, trova un terreno sempre più fertile.
Per capire il significato del licenziamento di Sang Hea Kil bisogna partire dal contesto del febbraio 2024: settimane di accampamenti, blocchi degli edifici, interruzioni delle lezioni, occupazioni di spazi universitari sotto la bandiera della “solidarietà alla Palestina”. Un ciclo di proteste che, nelle sue manifestazioni più radicali, ha avuto come bersaglio privilegiato gli studenti ebrei, accusati di essere complici di un genocidio. In troppi campus, essere ebrei è diventato improvvisamente pericoloso.
In questo clima, la partecipazione di una professoressa non si è limitata all’espressione di un’opinione politica — sacrosanta — ma è diventata discorso performativo: incitamento a violare le regole universitarie, sostegno a occupazioni e azioni che hanno messo a rischio sicurezza e continuità accademica. Lo stesso comitato di revisione dell’università ha riconosciuto le violazioni, pur suggerendo una pena più mite del licenziamento. La rettrice ha confermato la decisione: non per ragioni ideologiche, ma perché la protezione degli studenti — tutti, inclusi quelli ebrei — e la tenuta dell’istituzione non possono essere subordinate alla militanza di facoltà e attivisti.
È qui che il caso diventa emblematico per l’Italia e l’Europa. Molti leggono questa vicenda come un attacco alla libertà accademica. È l’esatto contrario: è il tentativo, tardivo ma necessario, di ristabilire la differenza tra ricerca e propaganda. La libertà accademica tutela il pensiero critico; non protegge l’attivismo che impedisce ad altri di studiare, entrare in aula o partecipare alla vita universitaria senza intimidazioni.
E soprattutto: la libertà accademica non giustifica, né negli Stati Uniti né altrove, la normalizzazione dell’antisemitismo che ha accompagnato molte proteste pro-Palestina del post–7 ottobre.
Il problema, nel 2025, non è reprimere le voci critiche verso Israele — che restano legittime e necessarie. Il problema è quando il linguaggio dell’attivismo smette di distinguere tra Stato ebraico ed ebrei, tra governo israeliano e identità ebraica; quando le università tollerano discorsi o pratiche che mettono in pericolo una minoranza facilmente identificabile. Che una professoressa di justice studies non abbia percepito questo rischio è già di per sé rivelatore.
L’America sta attraversando un momento di chiarificazione. I campus che per decenni hanno coltivato un clima di permissività selettiva — severa con certe posizioni, indulgente con altre — si trovano ora di fronte alle conseguenze di questa asimmetria. Non stupisce che siano proprio i casi legati al conflitto israelo-palestinese a far esplodere le contraddizioni: è il terreno dove la cattiva coscienza progressista mostra i suoi limiti, dove la solidarietà selettiva produce doppi standard, dove l’antisionismo militante diventa troppo spesso il vocabolario rispettabile dell’antisemitismo contemporaneo.
Per l’Italia, questo caso offre almeno due lezioni.
La prima: le università non possono lasciare che la loro funzione sia distorta dall’attivismo identitario. La missione dell’accademia è il pluralismo, non la radicalizzazione emotiva. Se un docente usa la sua posizione per legittimare forme di protesta che minano la sicurezza o discriminano studenti, l’istituzione ha il dovere di intervenire. Non è censura; è responsabilità pubblica.
La seconda: il confine tra libertà di espressione e incitamento non è un dettaglio tecnico, ma un equilibrio fragile da ricostruire ogni giorno. Le università americane hanno tollerato per anni un linguaggio politico che demonizzava Israele e normalizzava l’idea — falsa e pericolosa — che il popolo ebraico sia collettivamente colpevole. Oggi pagano il prezzo di quella indulgenza. È un errore che l’Europa non può permettersi di imitare.
La storia della professoressa Kil non dovrebbe essere letta come una tragedia personale, ma come un avvertimento sistemico: quando l’università abdica al suo ruolo e lascia che l’attivismo la sostituisca, prima o poi qualcuno dovrà ristabilire l’ordine. Farlo tardi è sempre peggio che farlo presto.
Il caso Kil e la lunga crisi dell’università americana
Il caso Kil e la lunga crisi dell’università americana

