Il ddl Delrio sull’antisemitismo è stato accolto con un vero e proprio vade retro dai vertici del gruppo del Partito democratico al Senato, spingendo tre dei senatori firmatari a ritirare la propria adesione. Una reazione tanto brusca quanto rivelatrice. Il motivo del rifiuto risiede infatti nella scelta, contenuta all’articolo 1, di recepire la definizione operativa di antisemitismo approvata il 26 maggio 2016 a Bucarest dalla Plenaria dell’IHRA.
Vale la pena partire da qui. La definizione operativa – non giuridicamente vincolante – afferma che «l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei stessi». Le sue manifestazioni, verbali o fisiche, possono colpire ebrei e non ebrei, le loro proprietà, istituzioni o edifici di culto. Essendo un documento di lavoro, la definizione è accompagnata da esempi che chiariscono quando l’antisionismo rischia di diventare un travestimento dell’antisemitismo.
È proprio qui che il Pd e parte del “campo largo” sostengono che il ddl metterebbe a rischio la loro libertà di critica verso Israele, trasformando ogni dissenso politico in un marchio d’infamia. Ma è un argomento che non regge. Il testo IHRA è esplicito: le critiche allo Stato di Israele analoghe a quelle rivolte a qualsiasi altro Paese non possono essere considerate antisemite.
Dove nasce allora l’equivoco? Negli esempi che individuano situazioni in cui l’odio antiebraico si maschera da antisionismo. Alcuni sono purtroppo di drammatica attualità:
L’incitazione o la giustificazione dell’uccisione di ebrei in nome di ideologie radicali o religioni estremiste. È esattamente ciò che è accaduto il 7 ottobre: i terroristi di Hamas hanno massacrato civili perché ebrei. Nessuna narrazione può trasformare quel pogrom in un atto di “resistenza”.
Le insinuazioni complottiste sugli ebrei, come il mito della “lobby ebraica” che dominerebbe media, finanza o governi. Uno stereotipo tornato in circolazione, spesso senza alcun fondamento, soprattutto considerando che buona parte dei media occidentali ha sposato posizioni filo-palestinesi.
L’attribuzione collettiva agli ebrei di colpe individuali, o la responsabilità per le azioni dello Stato di Israele. Giovanni Paolo II, nella storica visita alla Sinagoga di Roma del 13 aprile 1986, lo chiarì una volta per tutte: «agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva». Eppure oggi alle comunità ebraiche della diaspora viene attribuita una responsabilità indistinta per la guerra a Gaza, con l’aggravante dell’accusa di “doppia lealtà”: una riproposizione, inquietante, delle logiche della propaganda nazista su Süss l’ebreo.
Segue nel documento IHRA la condanna del negazionismo e del revisionismo della Shoah, fenomeni purtroppo tutt’altro che scomparsi. Ma sono soprattutto altri passaggi a evidenziare l’imbarazzo del Pd e dei suoi alleati: negare agli ebrei il diritto a una patria definendo Israele come progetto “razzista” o “colonialista” – tesi oggi cavalcata dalla relatrice Onu Francesca Albanese – oppure pretendere da Israele comportamenti non richiesti a nessun altro Stato democratico, come la rinuncia strutturale alla propria sicurezza.
Il culmine di questa deriva è il paragone tra la politica israeliana e il nazismo. Un’accusa che non è mai stata rivolta ad altri leader mondiali – pur oggetto di giudizi severi – e che appare come un deliberato tentativo di “pareggiare il conto” con la Shoah. Attribuire a Israele una continuità con Hitler significa infatti capovolgere la memoria storica, trasformare la vittima in carnefice e alleggerire il peso morale dell’Europa rispetto allo sterminio degli ebrei.
La verità è che gli slogan che inquinano il dibattito – da “Palestina libera dal fiume al mare” al paragone tra Netanyahu e Hitler – rientrano a pieno titolo nelle categorie individuate dall’IHRA. Non perché impediscano la critica a Israele, ma perché la svuotano di contenuto politico e la trasformano in demonizzazione identitaria.
È qui che si misura il nervo scoperto del Pd. La paura non è quella di perdere la libertà di critica, ma quella di dover riconoscere che una parte rilevante della propria area politica ha derapato verso forme di ostilità agli ebrei che l’Europa credeva consegnate alla Storia. Una resa dei conti che il ddl Delrio, con il suo realismo e la sua chiarezza, rende oggi impossibile rinviare.
Il caso Delrio e la definizione IHRA: perché il Pd sbaglia bersaglio sull’antisemitismo
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