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Il boicottaggio dei datteri e l’ignoranza che avvelena la rete

Aldo Torchiaro

Tempo di Lettura: 3 min
Il boicottaggio dei datteri e l’ignoranza che avvelena la rete

Su LinkedIn, la piattaforma dei professionisti, negli ultimi giorni è circolato un appello al boicottaggio dei prodotti agroalimentari israeliani. Tutto nasce dalla ripubblicazione di un articolo de Il Fatto Alimentare dedicato ai datteri provenienti da Israele, confezionati secondo il giornale «nei territori palestinesi occupati illegalmente dagli israeliani».

L’articolo – diventato virale – ha suscitato una reazione indignata da parte di molti utenti. Tra questi, l’imprenditore Alessandro Tesini, che su LinkedIn ha risposto con fermezza:

«Scrive, odiosamente, Roberto La Pira su Il Fatto Alimentare: “…Per questo motivo nei supermercati come Esselunga e Iperal si trovano datteri, coltivati nei territori Palestinesi occupati illegalmente dagli israeliani…”: La Pira, non esistono i territori palestinesi occupati illegalmente dagli ebrei di Israele; la Palestina, territorio geografico, si è dotata meravigliosamente di uno Stato legittimo nel 1948, questo Stato di Diritto si chiama ISRAELE: dovete farvene una ragione storica e culturale».

Su quella stessa piattaforma sono intervenuto anch’io. Ho deciso di farlo perché la leggerezza con cui si invoca un boicottaggio etnico mascherato da scelta “etica” tradisce non solo superficialità, ma anche una pericolosa ignoranza del reale funzionamento del comparto agricolo israeliano.

Riporto qui integralmente la mia risposta:

«Caro Roberto La Pira, viva i datteri, i pompelmi, i kiwi e gli avocado israeliani, buonissimi, sani, spesso bio. Quanta ignoranza becera: nelle piantagioni e nei kibbutz che li producono lavorano fianco a fianco israeliani e arabi, cittadini israeliani di religione islamica, drusi e migranti asiatici e africani regolarmente impiegati e pagati.
Chi si oppone al loro consumo si oppone al dialogo, alla convivenza civile tra etnie e lavoratori di ogni parte del mondo, accolti da Israele.
Dietro a ogni confezione agroalimentare c’è il lavoro di famiglie, l’impegno e lo sforzo di uomini e donne di pace.
Ogni appello al boicottaggio è in sé disumano, razzista e ignorante.
Boicottate chi boicotta e comprate cibo sano, quale che sia la provenienza».

Il paradosso, ancora una volta, è che il boicottaggio pretende di essere un gesto morale, ma finisce per colpire proprio chi lavora – fianco a fianco e senza distinzioni – per produrre cibo destinato al mercato internazionale. Israele non è una monocromia identitaria: è un mosaico di lingue, religioni, etnie e provenienze.

Colpire i suoi prodotti equivale a colpire una realtà sociale complessa, fatta di cooperazione quotidiana tra comunità diverse. È una punizione collettiva che non cambierà la geopolitica, ma che rischia di distruggere posti di lavoro, relazioni umane e interi distretti agricoli.

Il boicottaggio è l’arma dei superficiali. Il dialogo, invece, è la scelta dei responsabili.

E, come sempre, la verità si trova nella terra dove si coltiva: non nei post indignati, ma nei campi dove uomini e donne lavorano insieme.


Il boicottaggio dei datteri e l’ignoranza che avvelena la rete
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