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Il boicottaggio accademico contro Israele e il nuovo antisemitismo delle istituzioni

Alessandro Bertani

Tempo di Lettura: 5 min
Il boicottaggio accademico contro Israele e il nuovo antisemitismo delle istituzioni

Il 24 luglio, il Consiglio di Amministrazione dell’Università di Pisa, dando seguito a un indirizzo del Senato Accademico, ha deliberato di interrompere gli accordi quadro con due università israeliane: la Hebrew University of Jerusalem e la Reichman University.

Che nelle Università italiane si respirasse da tempo un’aria ideologica ostile a Israele era cosa nota. Ma la decisione di interrompere degli accordi quadro – cioè contratti pubblici – segna senza dubbio un salto di qualità, un cambio di passo. Non solo è pericolosa, perché a forte rischio emulativo, ma è anche carica di ipocrisia. Lo si capisce leggendo le delibere: si ha l’immediata sensazione che si sia voluto lanciare il sasso e nascondere la mano, quasi a voler normalizzare un gesto discriminatorio.

Si dichiara, infatti, che non si tratta di un boicottaggio, bensì di un «intervento selettivo», rivolto a due università considerate troppo vicine al governo israeliano, accusato di essere responsabile di «una forma di pulizia etnica». La solita accusa di genocidio, brandita in modo mirato contro due università come se questo bastasse a legittimare l’atto. Poco importa che non esista alcuna sentenza, nemmeno una, che accerti giuridicamente la presunta pulizia etnica: a forza di ripeterlo fino allo sfinimento, il genocidio è divenuto verità a prescindere.

Per mettersi al riparo dalle accuse, si aggiunge poi la solita excusatio non petita: si interrompono gli accordi con due università israeliane, ma questo – si assicura – «non significa discriminare gli ebrei». Figuriamoci.

A sostegno della decisione, si richiama persino il «brillante lavoro» svolto da Francesca Albanese, ex studentessa dell’Ateneo e oggi relatrice speciale ONU sui Territori palestinesi occupati. Secondo i suoi report, definiti «imparziali», vi sarebbero prove «incontrovertibili» che nella Striscia di Gaza è in corso una pulizia etnica.

Una digressione è necessaria: qualcuno può spiegare cosa ha fatto di così prodigioso Francesca Albanese per essere osannata come la depositaria della verità? È normale che una figura nel suo ruolo – e per giunta una donna, che si presume sensibile alla violenza sulle donne – non riesca a esprimere una condanna incondizionata del massacro del 7 ottobre? È normale che non dica che Hamas è un’organizzazione terroristica, i cui membri hanno stuprato, brutalizzato e ucciso un numero indefinito di donne, rapendone altre e tenendole come schiave nei tunnel di Gaza? Eppure, anche stavolta, il suo elogio ha trovato spazio e legittimità.

Chiamatelo come volete – «boicottaggio istituzionale» o «intervento selettivo» – ma la decisione dell’Università di Pisa è una forma istituzionalizzata di discriminazione contro enti israeliani. La Hebrew University of Jerusalem e la Reichman University sono state colpite per due colpe: la prima, essere israeliane; la seconda, intrattenere rapporti con il governo israeliano.

Sulla prima poco si può fare. Ma la seconda accusa ha dell’incredibile: esistono università, in qualunque Paese, che non abbiano rapporti con il proprio governo? L’Università di Pisa non ha forse rapporti con il governo italiano? Certamente sì, come è normale e previsto dalla legge.

Nulla si salva nelle delibere pisane. Sono illogiche, discriminatorie e in violazione dell’Accordo di associazione tra l’Unione Europea e lo Stato d’Israele. Accordo tuttora in vigore, che prevede espressamente l’«intensificazione della cooperazione in campo scientifico e tecnologico».

Ma al di là delle considerazioni giuridiche, ciò che preoccupa di più è l’aspetto culturale e politico. Il boicottaggio contro due università israeliane rivela un pregiudizio antiebraico mascherato da atto morale. E a chi ancora non volesse vederlo, si può porre una semplice domanda: avete mai visto chiedere conto delle politiche del governo d’origine con la stessa insistenza, lo stesso livore e la stessa violenza con cui si interroga ogni ente o individuo israeliano?

Per una volta, lasciamo da parte il dibattito su Gaza. Ammettiamo pure, per ipotesi, che Netanyahu esprima la peggiore delle politiche possibili. Ma concentriamoci su quel che accade a casa nostra: a cittadini ebrei, ad accademici, ad imprese israeliane. Chiediamoci se vengono trattati come tutti gli altri. La risposta, se data con onestà intellettuale, è no: per loro c’è sempre un «se», un «ma», una postilla che giustifica il trattamento differenziato.

È il momento di aggiornare la nostra comprensione dell’antisemitismo. Certo, ci saranno sempre gli odiatori espliciti, quelli che insultano e minacciano. Ma accanto a loro, oggi emerge una nuova frontiera: quella delle Amministrazioni pubbliche – alcune, non tutte – che adottano provvedimenti discriminatori contro ebrei ed enti israeliani.

Non è qualcosa di nuovo, purtroppo. È molto simile a ciò che accadde in Europa negli anni ’30. Ma è qualcosa che credevamo di non rivedere mai più, e che invece si ripresenta, subdolo, dentro Istituzioni che dovrebbero essere presidio di imparzialità e pluralismo – come le università.

Contro questi atti abbiamo il dovere di reagire: culturalmente, politicamente e, se necessario, legalmente. Promuovendo ricorsi nelle sedi competenti, con coraggio e senza paura della sconfitta. Perché se un giorno un Tribunale arrivasse a respingere un ricorso contro decisioni come quella pisana, allora sì: vorrà dire che lo Stato di diritto è arrivato davvero al capolinea.


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