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Il 7 ottobre e la frattura irreversibile

Daniela Santus

Tempo di Lettura: 4 min
Il 7 ottobre e la frattura irreversibile
Il 7 ottobre e la frattura irreversibile

Esistono date che incidono la memoria collettiva come una lama. Il 7 ottobre 2023 appartiene a questa categoria di eventi-spartiacque, quelli che costringono a ridefinire il prima e il dopo. Per Israele, per gli ebrei della diaspora, per chiunque abbia osservato con lucidità gli eventi di quel sabato di Simchat Torah, qualcosa si è spezzato irreversibilmente. Non si tratta solo del bilancio delle vittime: si tratta della frattura di un patto esistenziale, della fine di un’illusione. Per comprendere la profondità del trauma israeliano occorre partire da una consapevolezza storica: Israele nasce come risposta alla vulnerabilità estrema del popolo ebraico. Dopo millenni di persecuzioni culminate nella Shoah, lo Stato ebraico si è costruito attorno a un imperativo: «mai più». Mai più inermi, mai più alla mercé degli altri. Il 7 ottobre ha demolito questa certezza, con lo sciamare dei terroristi palestinesi che hanno massacrato famiglie, violentato donne, rapito bambini e anziani. Una frattura nella percezione della sicurezza, questa, che ha avuto conseguenze devastanti andando ben oltre il trauma individuale e abbattendosi anche sulle comunità ebraiche europee con violenza inaspettata. In Italia, gli ebrei hanno vissuto un doppio choc: quello dell’attacco stesso e quello della reazione che ne è seguita. Nel giro di settimane, le poche manifestazioni di solidarietà hanno lasciato spazio a cortei in cui si inneggiava alla «resistenza palestinese», eufemismo dietro cui si nascondeva la giustificazione del massacro. Sinagoghe presidiate, scuole ebraiche sotto scorta, studenti ebrei insicuri nelle università: uno scenario che molti credevano relegato ai libri di storia. La comunità ebraica italiana si è ritrovata improvvisamente esposta, percepita non come parte integrante della società ma come corpo estraneo, identificata automaticamente con le azioni del governo israeliano. Questo meccanismo di trasferimento di responsabilità collettiva – per cui ogni ebreo diventa responsabile delle azioni di Israele – è precisamente la definizione operativa di antisemitismo. Eppure è diventato mainstream, accettabile, perfino progressista. L’antisionismo ha fornito un abito rispettabile a un odio antico. Ed è qui che arriviamo al punto più doloroso: il ruolo delle università in questa deriva. Le università dovrebbero essere i luoghi del pensiero critico, del dibattito razionale. Dovrebbero essere gli spazi dove si smontano i pregiudizi, non dove si coltivano. Invece, nei mesi successivi al 7 ottobre, numerosi atenei italiani ed europei sono diventati arene del boicottaggio accademico contro Israele. Mozioni per interrompere collaborazioni con università israeliane e iniziative BDS presentate come gesti di «giustizia sociale»: il tutto senza alcuna analoga richiesta nei confronti, ad esempio, delle università cinesi, nonostante le oppressioni contro gli uiguri, o contro quelle iraniane, nonostante le numerose donne impiccate. Il boicottaggio contro Israele è inconcepibile anche perché colpisce, tra l’altro, proprio quegli accademici che sono spesso i più critici verso il proprio governo. Colpisce studenti ebrei che devono nascondere la loro identità per non essere aggrediti. Colpisce la possibilità stessa del dialogo. Le università, chiudendo gli occhi, stanno offrendo un via libera morale all’antisemitismo. Hanno – senza dubbio involontariamente – creato spazi in cui è socialmente accettabile discriminare sulla base dell’identità ebraica, purché lo si faccia sotto la bandiera dei diritti umani. Hanno permesso che il linguaggio dell’attivismo progressista veicolasse stereotipi antichi: «l’ebreo potente», «l’ebreo che controlla i media», «l’ebreo come colonizzatore eterno», «l’ebreo che uccide i bambini». Questa complicità intellettuale è grave perché viene da istituzioni che dovrebbero educare alla complessità. Invece in molti atenei si è imposto un frame narrativo rigido: l’israeliano è «l’oppressore», mentre il palestinese è «l’oppresso», senza lasciar spazio né alla complessità del conflitto né al dialogo. A due anni dal 7 ottobre, la domanda è questa: cosa resta dopo la frattura? Israele non tornerà alla società pre-7 ottobre, così come gli ebrei della diaspora hanno perso l’illusione di un’integrazione indiscussa. Qualcosa si è rotto nel patto tra ebrei ed Europa. Per Israele, la sfida è duplice: ricostruire sicurezza senza autarchia e ritrovare coesione interna. Per gli ebrei della diaspora, la sfida è forse più complessa. Nessuno avrebbe mai pensato che saremmo giunti al punto di dover rivendicare il diritto degli ebrei di esistere come cittadini a pieno titolo senza aver bisogno di apparire «ebrei buoni» e prendere le distanze da Israele per essere accettati. Tutti noi dobbiamo interrogarci su come sia stato possibile che ottant’anni dopo la Shoah, in un continente che ha fatto dell’antirazzismo il suo pilastro valoriale, si sia creato uno spazio pubblico in cui è addirittura accettabile che una candidata alle elezioni regionali della Toscana possa definirsi, nel suo volantino elettorale: «antifascista, antirazzista e antisionista per l’autodeterminazione dei popoli». Evidentemente non per quello ebraico. Il 7 ottobre ci ha tolto molte illusioni, ci è rimasta una sola consapevolezza: certi odi non scompaiono, si trasformano e cambiano solo nome.


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