È una delle tante gelide giornate invernali nella quieta, ordinata e responsabile società danese, invidiata – se non per il clima – di certo per il passo civile, il sobrio benessere, il diffuso senso di sicurezza e un modello di avanguardia sul piano dei diritti. Ma giovedì 14 dicembre 2023, quando in diverse zone del Paese l’aria viene ripetutamente tagliata dal suono delle sirene della polizia, quella stessa società comincia a tremare.
Le breaking news di radio e televisioni annunciano posti di blocco in tutto il territorio, numerose perquisizioni e diversi arresti. Le forze di polizia, insieme al servizio di intelligence (PET) e a partner internazionali, hanno appena dato il via a una vasta operazione antiterrorismo che si estende da Copenaghen a Vestegnen, da Funen allo Jutland. Risultato: due uomini e una ragazza vengono portati via in manette. Altro non è dato sapere. Toccherà a Flemming Drejer, capo operativo del PET, spiegare che le forze dell’ordine hanno smantellato un network transnazionale legato a bande criminali come il clan mafioso “Loyal to Familia”. L’obiettivo è uno solo: gli ebrei e le loro istituzioni.
Dopo poche ore si configura il reato di “preparazione di atti terroristici”, che secondo il codice penale danese comporta che le udienze cautelari si svolgano a porte chiuse. Niente pubblico, niente stampa. Parallelamente agli arresti in Danimarca, altri tre individui vengono fermati in Germania e un altro ancora nei Paesi Bassi. Su tutti aleggia il sospetto che siano membri di cellule telecomandate da Hamas. Viene così alla luce il quadro di un’internazionale del terrore alleata con il crimine organizzato, le mafie locali e una miriade di piccole formazioni dedite allo spaccio di droga, immigrazione illegale, riciclaggio, tratta di giovani destinate alla schiavitù sessuale, traffico di organi. I mandanti – Hamas e l’Iran – sono generosi nei pagamenti; i reclutati, senza scrupoli nell’eseguire gli ordini.
Il primo ministro Mette Frederiksen è costretta ad ammettere obtorto collo che la situazione è “estremamente grave”. Nelle sinagoghe di Copenaghen e del resto della nazione scatta l’allerta, aumentano i dispositivi di sicurezza, ogni cittadino ebreo si guarda le spalle: molti rinunciano a uscire con la kippah, altri anticipano le feste di fine anno e partono per l’estero.
Nel 2024 l’AKVAH (“Antisemitic Incidents in Denmark”, il dipartimento della Comunità ebraica danese che censisce e analizza i casi di antisemitismo nel Paese) ha documentato 207 episodi – un aumento del 71% rispetto al 2023 – con un nefasto record di attacchi gravi, tra cui un incendio doloso contro l’abitazione di una donna ebrea a maggio, un’aggressione con coltello a un ragazzo e continui casi di violenza fisica e molestie. Sono i numeri più alti registrati dalla fine dell’occupazione nazista. In proporzione alla popolazione ebraica – circa 6.500 persone su quasi 6 milioni di abitanti, poco più dello 0,1% – l’impatto è devastante. Gran parte degli attacchi si concentra online, dove l’antisemitismo corre veloce, spinto da una retorica malata che mescola livore, cecità e ubriacatura ideologica.
La società civile danese reagisce con compostezza, a volte persino con coraggio, raramente con decisione. I partiti di governo e di opposizione concordano nel varare misure contro i reati d’odio: pene più severe e strumenti aggiornati per contrastare l’incitamento, anche sui social. Le grandi organizzazioni sindacali si esprimono in termini generici e anodini. Le ONG progressiste, sempre rapide nel mobilitarsi per ogni giusta causa, sembrano poco interessate quando è la minoranza ebraica a essere presa di mira. Anche i principali giornali, con poche eccezioni, trattano l’antisemitismo con condiscendenza: un riflesso collaterale e ineluttabile del conflitto mediorientale, non un fenomeno che sta intossicando l’intera società.
Il governo sceglie la cautela e approva una legge che vieta la profanazione pubblica di testi religiosi. Un provvedimento che – dopo i roghi del Corano del 2023, quando un provocatore che risponde al nome di Rasmus Paludan bruciò pubblicamente copie del libro sacro dell’Islam – è apparso più come una risposta alle pressioni del mondo musulmano che come una reale misura a tutela della libertà religiosa degli ebrei. La sproporzione tra la gravità delle minacce e la timidezza delle risposte resta evidente.
Alludendo alla corruzione del regno, lo shakespeariano guardiano di Elsinore lamentava che “there’s something rotten in the state of Denmark”. Se c’è qualcosa di marcio nella Danimarca di re Frederik X, non è che le altre società occidentali esalino profumi. Di fronte a una propaganda islamista inferocita e incoraggiata, molti tacciono, altri ammiccano, pochi si indignano. Quasi nessuno reagisce. E la marea avanza.
VIAGGIO NELL’UEA (Unione Europea Antisemita) C’è qualcosa di marcio (non solo) in Danimarca VIAGGIO NELL’UEA (Unione Europea Antisemita) C’è qualcosa di marcio (non solo) in Danimarca VIAGGIO NELL’UEA (Unione Europea Antisemita)
C’è qualcosa di marcio (non solo) in Danimarca