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Hezbollah si mobilita nel Sud del Libano. Israele non arretra nel Nord: «Difenderemo i nostri confini».

Giancarlo Giojelli

Tempo di Lettura: 4 min
Hezbollah si mobilita nel Sud del Libano. Israele non arretra nel Nord: «Difenderemo i nostri confini».

Centinaia di combattenti di Hezbollah si sono riuniti nel Sud del Libano per i funerali di cinque leader del movimento sciita uccisi nei raid israeliani. Inquadrati, armati, hanno scandito slogan contro Israele e contro l’esistenza stessa dello Stato ebraico. «Siamo la sola difesa del Libano». La scena, per Gerusalemme, vale come un indizio eloquente: «È la prova che Hezbollah si sta riarmando e riorganizzando». Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Ci aspettiamo che il governo libanese tenga fede al suo impegno e disarmi Hezbollah. Israele continuerà a esercitare il suo diritto all’autodifesa. Il Libano non deve essere un pericolo per noi e faremo tutto il necessario».

Tradotto sul terreno, significa che l’IDF non intende arretrare dagli avamposti nel Sud del Libano e che colpirà senza esitazione qualunque minaccia ai villaggi e ai kibbutz dell’Alta Galilea. Gli accordi internazionali prevedevano che Hezbollah consegnasse le armi, pesanti e leggere, all’esercito regolare libanese, trasformandosi in un partito politico privo di milizia, sul modello di quanto accaduto per diverse formazioni cristiane e sunnite a nord di Sidone. Ma a sud del Litani, dove il controllo del territorio è saldo nelle mani del “Partito di Dio”, quell’obiettivo è rimasto sulla carta.

Il disarmo di tutte le milizie anche a sud del Litani—nell’area che molti, con ironia amara, chiamano Hezbollahnistan—era tra gli impegni assunti da Beirut, con il sostegno (più promesso che mantenuto) di vari Paesi arabi della regione. Il fatto, però, è che Hezbollah resta forte, radicato, capace di colpire. E, secondo Israele, si riorganizza per tornare a essere una minaccia di livello strategico. Lo schema a somma zero è noto: Hezbollah non consegnerà le armi finché l’IDF non si ritirerà; l’IDF non si ritirerà finché Hezbollah non consegnerà le armi. Il rischio, in assenza di una soluzione politica, è che i miliziani sciiti confluiscano nominalmente nelle forze armate libanesi conservando di fatto il controllo sugli arsenali.

La politica libanese prova a muoversi tra veti incrociati e antichi equilibri. Le formazioni cristiane—Kataeb e Forze Libanesi—spingono perché il monopolio della forza torni allo Stato. Nabih Berri, presidente del Parlamento e storico leader di Amal, recita il ruolo di mediatore. I partiti sunniti premono per evitare una nuova guerra sul fronte meridionale. Sullo sfondo si invoca la mediazione statunitense e si guarda ai riposizionamenti regionali: Damasco tenta di riguadagnare agibilità verso l’Occidente, Teheran mantiene una postura pubblicamente defilata.

Sulla linea blu la tregua somiglia sempre più a una fragile sospensione. Il Sud del Libano è tutt’altro che pacificato: il potere politico e sociale resta in gran parte nelle mani delle reti di Hezbollah, e le armi pesanti non sono scomparse. Per Israele, che entra in campagna elettorale e non può permettersi una nuova evacuazione dell’Alta Galilea sotto il fuoco di razzi dal Libano, il fronte nord rimane quello della minaccia esistenziale: non solo attentati, ma la prospettiva di colpire il cuore dello Stato.

In mezzo, 12 mila caschi blu di UNIFIL con un mandato che li rende di fatto paralizzati. A Gerusalemme cresce l’irritazione per l’uso della popolazione come scudo umano da parte dei miliziani. I recenti voli dei droni israeliani sulle basi di UNIFIL sono apparsi come un messaggio diretto alle forze internazionali: «Non prestatevi a far da baluardo alle operazioni di Hezbollah». La partita resta aperta. E più passa il tempo, più la tregua somiglia a una parentesi che rischia di richiudersi nel fragore delle armi.


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