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Hezbollah: quattro morti per nascondere la verità sul porto di Beirut

Shira Navon

Tempo di Lettura: 3 min
Hezbollah: quattro morti per nascondere la verità sul porto di Beirut

La rivelazione è arrivata nel momento più simbolico possibile: poche ore dopo la visita di Papa Leone XIV al porto di Beirut, luogo dell’esplosione che cinque anni fa devastò la capitale libanese e segnò l’inizio del collasso definitivo dello Stato. L’esercito israeliano, per bocca del suo portavoce in arabo, il colonnello Avichai Adraee, ha accusato apertamente Hezbollah di aver eliminato quattro funzionari e giornalisti libanesi che avevano osato toccare il nervo scoperto: il nitrato di ammonio immagazzinato nel porto e, soprattutto, il legame diretto tra quel deposito e l’organizzazione sciita.

Secondo l’IDF, a eseguire gli omicidi è stata l’Unità 121, una struttura interna di Hezbollah specializzata proprio nelle “operazioni ombra”. Le modalità sono quelle di un clan mafioso sicuro di sé, protetto dall’impunità e da un sistema politico paralizzato dalla paura. Joseph Skaaf, capo del dipartimento doganale del porto, venne gettato nel vuoto nel 2017 dopo aver insistito sulla rimozione del materiale esplosivo. Munir Abu Rajili, alto funzionario delle dogane, fu accoltellato nel dicembre 2020: aveva fornito informazioni sui collegamenti fra l’organizzazione e il deposito killer. Pochi giorni dopo toccò a Joe Bejani, fotografo che aveva documentato per primo la scena dell’esplosione e collaborava con l’esercito libanese: ucciso a colpi di arma da fuoco mentre gli aggressori si impossessavano del suo cellulare. Infine, nel febbraio 2021, cadde Laqman Salim, intellettuale e attivista, noto critico del partito di Hassan Nasrallah: freddato in auto dopo aver accusato Hezbollah e il regime siriano di essere i veri responsabili del disastro.

Quattro nomi, quattro storie diverse con un solo filo rosso a legarli: tutti sapevano, tutti avevano parlato o stavano per parlare. E tutti sono stati messi a tacere. Hezbollah, come c’era da aspettarsi, nega qualsiasi coinvolgimento e le indagini interne libanesi – quando non insabbiate – non hanno mai portato a nulla. L’intero caso del porto è una ferita aperta che il governo non riesce, o non vuole, affrontare. E non c’è da stupirsi: negli anni, la lista degli oppositori politici, giornalisti e funzionari “scomparsi” o assassinati in contesti sospetti è diventata una rassegna tragica che attraversa la storia recente del Libano. Dal premier Rafik Hariri, ucciso nel 2005, fino al politico Elias al-Hasrouni nel 2023: tutti morti attorno a un’unica zona d’ombra.

La tempistica della rivelazione dell’IDF non è casuale. La tensione sul confine nord è altissima, e l’esercito israeliano vuole gettare luce sulle responsabilità di Hezbollah dentro il Libano stesso, dove una parte crescente della popolazione non sopporta più il peso armato che condiziona ogni livello della vita politica ed economica. “I cittadini libanesi hanno chiaramente dichiarato che non permetteranno all’organizzazione terroristica Hezbollah di continuare a far loro del male”, ha scritto Adraee. È un messaggio diretto non solo all’opinione pubblica, ma anche al mondo arabo e all’Europa, che ancora sembrano faticare a confrontarsi apertamente con la natura destabilizzante del gruppo sciita.

La presenza del Papa nella zona portuale, lo scenario spettrale dei silos distrutti, l’odore ancora immaginabile di polvere chimica e ferro bruciato: tutto spingeva verso un gesto di memoria. Quelle morti riportate alla luce dall’IDF ricordano invece che la ferita non è chiusa e che chi ha provato a curarla è stato eliminato con metodi da Stato parallelo. Nel Libano la verità è ancora indicibile e chi prova ad aprire bocca, paga con la vita.


Hezbollah: quattro morti per nascondere la verità sul porto di Beirut
Hezbollah: quattro morti per nascondere la verità sul porto di Beirut