Secondo fonti vicine alla leadership di Hamas, citate dal quotidiano saudita Al-Sharq, l’organizzazione si appresta a tenere a breve nuove elezioni interne per ridefinire il vertice politico, rimasto formalmente vacante dopo l’eliminazione di Yahya Sinwar, avvenuta oltre un anno fa nel pieno della guerra. Il voto, previsto inizialmente nei primi mesi del 2025 e poi rinviato, dovrebbe svolgersi nel giro di giorni o settimane all’interno del Consiglio della Shura generale, l’organo che riunisce una cinquantina di esponenti provenienti da Gaza, dalla Cisgiordania e dall’estero.
La notizia viene presentata come un passaggio rilevante per il futuro dell’organizzazione. In realtà, più che aprire una fase nuova, l’operazione sembra mirare a ristabilire una catena di comando stabile dopo mesi di decapitazioni mirate, perdite militari e pressione internazionale. Hamas non sta scegliendo se cambiare linea, ma chi dovrà incarnarla.
I due nomi in campo chiariscono bene i termini della partita. Da un lato Khalil al-Hayya, attuale capo dell’ufficio politico nella Striscia, considerato il favorito grazie a un sostegno trasversale che va oltre Gaza e include settori importanti della leadership in Cisgiordania, in particolare l’area guidata da Zaher Jabarin. Al-Hayya rappresenta la continuità più netta con la linea di Sinwar: centralità del conflitto armato, rifiuto di qualsiasi soluzione che non passi dal ritiro totale israeliano, subordinazione della dimensione politica a quella militare.
Dall’altro lato c’è Khaled Meshaal, volto storico dell’organizzazione e figura più radicata all’estero, che propone una strategia diversa nei toni ma non negli obiettivi finali. La sua piattaforma parla di “compromessi negoziali”, di un parziale allontanamento dall’Iran e di un riavvicinamento ai Paesi arabi considerati moderati. È una linea che guarda meno al campo di battaglia e più alle capitali regionali, ma che non mette in discussione la logica del conflitto permanente.
Qui sta il punto spesso ignorato quando si parla di “elezioni” in Hamas. Non si tratta di un processo competitivo nel senso politico del termine, né di un confronto tra visioni alternative sul futuro dei palestinesi. La Shura non risponde a un corpo elettorale, ma a equilibri interni, rapporti di forza, sponsor regionali. Le differenze tra i candidati riguardano soprattutto il metodo e non la sostanza: armi o diplomazia strumentale, resistenza armata diretta o mediata. L’obiettivo resta lo stesso.
In questo senso, il voto serve soprattutto a ricompattare l’organizzazione dopo mesi di colpi durissimi, tra cui l’eliminazione di figure chiave dell’ala militare e il logoramento delle strutture di comando. Formalizzare una nuova leadership significa rassicurare i quadri, parlare ai finanziatori, mostrare che Hamas è ancora un soggetto funzionante, capace di autoriprodursi anche sotto pressione.
Non va sottovalutato, infine, il messaggio rivolto all’esterno. Presentare una scelta tra un profilo “duro” e uno apparentemente più “politico” consente a Hamas di offrire agli interlocutori internazionali l’illusione di una possibile evoluzione del movimento terroristico responsabile del pogrom del 7 ottobre e di migliaia di atti infami. E’ un’illusione che l’organizzazione coltiva da anni, alternando fasi di violenza estrema a momenti di linguaggio più accettabile, senza mai rinunciare alla propria identità jihadista.
Chiunque emerga vincitore, il dato strutturale rimarrà lo stesso: Hamas non sta cercando una via d’uscita dalla guerra, ma un modo per continuarla con una leadership più stabile e riconoscibile. Le elezioni, in questo quadro, non sono l’inizio di qualcosa di nuovo, ma un meccanismo di sopravvivenza politica dentro un conflitto che l’organizzazione non ha alcuna intenzione di archiviare.
Hamas, il voto che non cambia nulla
Hamas, il voto che non cambia nulla

