Per un lustro Hamas ha spiato l’esercito israeliano più da vicino di quanto l’esercito stesso immaginasse. Non servivano satelliti, droni o sofisticati apparati di sorveglianza: bastavano i social network, qualche migliaio di operatori dedicati e un lavoro di scavo mentale che, giorno dopo giorno, ha trasformato la vita quotidiana di migliaia di militari in materiale d’addestramento per un massacro.
Secondo le valutazioni dell’IDF, la macchina d’intelligence di Hamas contava circa 2.500 uomini e ha iniziato a operare già nel 2018. L’obiettivo era semplice e spaventoso: monitorare in modo sistematico quasi 100.000 soldati e ufficiali israeliani. Un’operazione di raccolta lenta, ossessiva e chirurgica. Ogni foto postata all’uscita da una base, ogni video girato in camerata, ogni inquadratura inconsapevole di un cancello, un’antenna, un bunker, è diventata un tassello di un mosaico che Israele ha scoperto troppo tardi.
La rete non si è limitata ai contenuti pubblici. Attraverso identità fittizie costruite con abilità – avatar femminili, profili di soldati, studenti universitari, persino parenti inventati – gli operatori di Hamas sono riusciti a entrare in gruppi chiusi, pagine riservate e chat WhatsApp di nuove reclute. Hanno osservato in silenzio, memorizzato gerarchie, rituali, movimenti, orari. E hanno redatto report quotidiani: spostamenti di truppe, rotazione delle compagnie, collocazione delle batterie Iron Dome, punti ciechi delle recinzioni.
Il quadro emerso dalle indagini è a dir poco sconcertante. Migliaia di frammenti – TikTok, selfie, video per famiglie, scatti innocui di commiato – sono stati incrociati con software di analisi e ricostruzioni tridimensionali. Hamas ha prodotto simulazioni precise al punto da replicare in scala reale intere basi lungo il confine con Gaza. In quelle riproduzioni, i terroristi hanno provato e riprovato l’infiltrazione, affinando tattiche, tempi e percorsi.
La tecnologia li ha aiutati: visori VR, programmi di modellazione 3D, piattaforme usate in Occidente per addestrare piloti e forze speciali. Nulla è stato lasciato al caso, tutto calcolato, cronometrato, passato al setaccio tanto da far emergere e disegnare una rappresentazione quasi perfetta della routine israeliana. Una fonte militare ha ammesso che quei modelli erano più accurati di quanto fosse mai immaginabile. Un ufficiale dell’Aeronautica ha raccontato: “Hamas conosceva la base meglio di me, anche se ci ho servito per anni”. Non era un’iperbole: era il resoconto di un fallimento della vigilanza in un’epoca in cui i telefoni sono diventati le nuove armi improprie dello spionaggio.
In parallelo emergono altri dettagli, raccolti nelle ultime settimane da testimoni, investigatori e analisti: Hamas ha studiato gli spostamenti familiari dei soldati, le fotografie scattate nei kibbutz di confine, perfino le targhe delle auto nei parcheggi delle basi. Ha ricavato informazioni sul morale delle unità, sulle rotazioni dei reparti e sulle abitudini dei comandanti. Ogni dato era una pallottola destinata a colpire una mattina d’autunno di due anni fa.
Perché il 7 ottobre è stato anche questo: la conseguenza di un nemico che, mentre Israele litigava sui social e guardava altrove, ha usato gli stessi social come un manuale operativo. Non un colpo di genio, ma un lavoro di scrupolosa pazienza che l’intelligence israeliana ora sta ricostruendo pezzo per pezzo, con un’unica domanda sospesa: come si ferma chi conosce la tua casa meglio di te?
Hamas, cinque anni di spionaggio digitale contro l’IDF
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