Greta Thunberg è tornata in Svezia, accolta con cori e bandiere, come si fa con un’eroina tornata da un fronte vittorioso. Manca, però, la vittoria. La sua flottiglia per Gaza è finita con un arresto, accuse di provocazione e un’altra scena madre costruita su un’illusione di martirio. È rientrata «festosamente», scrivono i giornali svedesi. Festosamente dopo aver fallito, e dopo l’ennesima misera figura che ha fatto il giro del mondo.
Poche ore prima del 7 ottobre 2025, data che per Israele segna il trauma di un secolo, Greta aveva pubblicato un post sulle «sofferenze dei prigionieri palestinesi». Fin qui, nulla di nuovo: il suo lessico è da tempo quello del tribunale morale permanente. Ma questa volta ha allegato una foto di Eviatar David, un ragazzo israeliano rapito da Hamas e tenuto nei tunnel da due anni. La sorella di Eviatar, Yaela, le ha risposto con una dignità che vale più di mille conferenze sul clima: «Devi fare ricerche prima di pubblicare cose che non capisci. Quella foto è di un ostaggio israeliano, deliberatamente affamato da Hamas».
Roba da seppellirsi sotto la terra. Eppure Greta, come sempre, non ha chiesto scusa. Ha corretto il post in silenzio, come fanno quelli che vogliono restare puri anche quando sbagliano. È il paradosso dell’attivismo che si autoassolve: può manipolare, distorcere, perfino umiliare la realtà, purché ciò che vende, anche se fallato, serva alla causa.
Il problema non è solo la superficialità, ma la fede cieca. Thunberg è diventata il simbolo di un nuovo fanatismo morale che si crede e si pretende compassione. Dalla crisi climatica è passata alla guerra, sempre con la stessa formula: indignazione in diretta, lacrime calibrate e slogan ripetuti. Il mondo è un palco, e lei si sente ancora al centro — e va aggiunto, tra parentesi, che la colpa è anche del pubblico che va al circo e paga il biglietto.
Dicono che durante la detenzione in Israele abbia dormito su un materasso infestato da pulci e sofferto la sete. Il Guardian ha raccontato la storia come se fosse la prova del male assoluto. Ma in realtà la scena perfetta era già pronta: una giovine perseguitata da Israele e martire del Bene. Poi il rientro in patria, tra selfie, applausi e ola di accoglienza.
Il punto è che Greta non rappresenta più una causa, ma una caricatura di sé stessa. Un tempo la sua rabbia sembrava autentica; oggi è un format replicato, intercambiabile. Ogni volta un bersaglio nuovo, ogni volta la medesima, malinconica postura. E mentre il mondo reale brucia — per davvero, non nelle metafore — lei continua a trasformare le tragedie in materiale da post.
Greta Thunberg non ha fallito perché è stata arrestata. Ha fallito perché non ha più nulla da dire. Perché si è fatta strumento di una propaganda che chiama libertà ciò che è menzogna e chiama giustizia la cancellazione della verità. E allora sì, l’accoglienza festosa in Svezia è perfetta: festa del vuoto e tristo carnevale dell’innocenza recitata.
Greta, la foto è sbagliata. E non solo quella
Greta, la foto è sbagliata. E non solo quella