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Gran Bretagna, sicurezza a teatro: il caso Mahmood

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Gran Bretagna, sicurezza a teatro: il caso Mahmood

Una volpe a guardia del pollaio. Con un colpo di teatro degno di questo nome, Keir Starmer affida il Viminale britannico a Shabana Mahmood: ex Guardasigilli, nuova Home Secretary, prima donna musulmana a ricoprire quel dicastero. Il suo curriculum la qualifica come giurista solida e macchina da campagna elettorale; il suo profilo pubblico tiene insieme fede dichiarata come “centro” della vita e ambizioni di law & order. Simbolo perfetto per la vetrina della diversità. Ma sulla sostanza il conto torna meno.

Il nodo è la coerenza tra messaggio e mestiere. Mahmood promette «controllo dei confini», stretta sui trafficanti, fine della farsa degli alberghi utilizzati come centri d’accoglienza per richiedenti asilo. Va ricordato, però, che da Guardasigilli chiedeva di “evolvere” l’applicazione della Convenzione europea dei diritti umani, specie l’articolo 8 su vita privata e familiare, spesso brandito nei ricorsi per bloccare le espulsioni. Riformare non è bestemmiare, ma un Home Office credibile non può essere schizofrenico tra slogan di durezza e corsie preferenziali che paralizzano le espulsioni. O si semplificano davvero le regole, o si smette di vendere illusioni.

C’è poi la questione che inquieta gli ebrei britannici (e non solo loro). Nel 2014 Mrs Mahmood prese parte a un’azione BDS che portò alla chiusura di un supermercato Sainsbury a Birmingham, episodio-simbolo di una stagione in cui la “protesta” sconfinava nella pressione di piazza sul commercio e normalizzava il boicottaggio. Se è vero che dopo il 7 ottobre ha – bontà sua – condannato Hamas, restano le immagini di un tempo non lontano. Insomma, la persona che ora decide su divieti di cortei e proscrizioni terroristiche è la stessa che allora marciava sotto slogan d’intifada. La fiducia non è un interruttore.

Sul fronte atlantico, l’aria è cambiata. A Washington l’amministrazione ha rimesso immigrazione, frontiere e islamismo politico al centro della sicurezza nazionale, e i Five Eyes – l’alleanza d’intelligence che unisce Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti – non sono un circolo letterario. Nei primi giorni a Whitehall, Mahmood ha ospitato i partner del network e messo sul tavolo la leva delle restrizioni sui visti per i Paesi che non riprendono i propri irregolari. Una mossa muscolare, ma che apre frizioni con giganti come India, Pakistan e Nigeria: diplomazia e commercio finiscono sempre per pagare il conto. Se Londra appare ambigua, gli alleati razionano le informazioni. E nel controterrorismo i sospetti si pagano in ritardi operativi.

Il paradosso europeo è tutto qui: si annuncia la guerra ai trafficanti e poi si costruiscono labirinti legali. Si invoca fermezza, ma ci si affida alla liturgia dei traguardi identitari come se bastassero a spaventare le gang che governano la Manica. È una visione politica suicidaria, non perché ignori i diritti, ma perché li trasforma in un alibi per l’impotenza. Il risultato è doppio: il pubblico perde fiducia, e i populismi si nutrono di promesse tradite.

Mahmood ha talento politico e fiuto tattico, ma al ministero dell’Interno non serve una storyline edificante: serve un custode freddo, prevedibile, rispettato dagli alleati e temuto dagli avversari. Se la nuova ministra governerà da attivista, Londra brucerà capitale di sicurezza con Washington e Gerusalemme e regalerà metri alle reti jihadiste e ai cartelli dei passatori. Se, al contrario, taglierà i ponti con le ambiguità del passato e metterà coerenza tra parole e atti, potrà sorprendere i critici e far rientrare l’allarme.

Per ora il messaggio che passa è un punto interrogativo piazzato sulla porta d’ingresso della vecchia Albione. Nel mondo dell’intelligence la percezione è capacità. Con i punti interrogativi non si condividono segreti, e senza segreti condivisi non si fermano bombe, coltelli e gommoni. Al ministero dell’Interno non servono primati storici, ma risultati veloci.


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