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Gli ostaggi di Hamas

Assuntina Morresi

Tempo di Lettura: 4 min
Gli ostaggi di Hamas

“Anche se studiaste tutta la documentazione, anche se ascoltaste tutte le testimonianze, visitaste tutti i campi e tutti i musei e leggeste tutti i diari, non riuscireste neppure ad arrivare sulla soglia di quella notte eterna. E’ questa la tragedia della missione del superstite. Egli deve raccontare una storia che non può essere raccontata.

Deve trasmettere un messaggio che non può essere trasmesso…In un certo senso il nemico ha paradossalmente raggiunto il suo obiettivo. Poiché egli ha valicato ogni limite con il suo crimine, e poiché non vi è altro mezzo per superare quel confine se non il linguaggio, è impossibile raccontare la storia completa di quel crimine”. Tornano alla mente queste parole di Eli Wiesel mentre si legge l’asciutto rapporto medico sulle condizioni di alcuni degli ostaggi rilasciati da Hamas, fra gennaio e febbraio del 2025, dopo più di un anno di prigionia dal pogrom del 7 ottobre.

Un rapporto presentato a Ginevra ai primi di agosto, durante un incontro fra una delegazione di madri dei rapiti e la Presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Mirjana Spoljaric Egger. Dieci paginette che sintetizzano lo stato di salute fisica e mentale di 4 donne e 8 uomini rilasciati dai terroristi all’inizio dell’anno, e che dicono del loro vissuto inumano nel sottosuolo della striscia di Gaza, in quei tunnel che la Storia ricorderà come i lager del XXI secolo per gli ebrei.

Neppure le storie dei sopravvissuti sono raccontate direttamente, nel report, ma ci arrivano dalla voce dei medici che li hanno visitati: si deducono dalle diagnosi, si carpiscono dai resoconti clinici, e ci parlano di una deliberata opera di disumanizzazione, perpetrata costantemente dai terroristi sui loro prigionieri, ai quali è stata negata ogni basica necessità.

Nei sotterranei scavati da Hamas cibo scarso e avariato, per affamare intenzionalmente; poca acqua da bere, e sporca – alimenti sani e acqua pulita a volte vengono mostrati agli ostaggi dai carcerieri, per poi essere immediatamente sottratti alla loro vista – e quindi dolori addominali, vomito e diarrea, e niente per lavarsi, per mesi e mesi, sempre con gli stessi indumenti, e poi buche nel terreno come latrine e nessuna cura per le fratture e le ferite riportate durante il pogrom – proiettili e schegge restati dentro – e neppure per le infezioni che arrivano, insieme alla febbre, perché l’igiene non c’è e con l’inedia calano le difese immunitarie. Il dolore di ossa, muscoli e nervi diventa cronico, senza alcun sollievo, anche perché si dorme per terra. E la fame, tanta fame.

Si respira a fatica l’aria nera dei cunicoli di Gaza, specie quando si è stipati in poco spazio o si è tenuti legati a lungo, e si perde il senso della notte e del giorno, nel buio delle gallerie, soprattutto quando i prigionieri vengono separati e si rimane soli per mesi e a fare compagnia restano allucinazioni, incubi, disperazione e dolore.

I medici hanno raccolto i ricordi traumatici delle violenze su familiari e amici, lo shock per il rapimento, per i tentativi di linciaggio da parte della folla urlante una volta trascinati a Gaza, e poi le minacce e le promesse bugiarde dei terroristi, e la tortura di non conoscere la sorte dei propri cari, persi di vista nel caos dei kibbutz in fiamme e nella fuga dal Nova Festival.

Ma tutto questo potremmo saperlo anche senza leggere il rapporto: è sufficiente guardare qualche spezzone dei video che Hamas ha appena diffuso, con due ostaggi ridotti letteralmente pelle e ossa, uno dei quali ripreso in lacrime mentre si torce dal dolore e l’altro che si scava la fossa dentro il tunnel in cui è prigioniero. Eli Wiesel riconoscerebbe se stesso a Buchenwald.

Ma il rapporto è caduto nel nulla, ignorato dall’intero mondo dei media, quello stesso che pende dalle labbra dei bollettini quotidiani del “ministero della Salute” di Hamas, né i video hanno smosso l’opinione pubblica e tantomeno mobilitato intellettuali e sedicenti pacifisti nelle piazze occidentali.

Gli ostaggi che stanno morendo nei tunnel di Hamas, così simili agli ebrei dei campi di concentramento di ottanta anni fa, al di fuori dello stato di Israele non suscitano la minima empatia e neppure umana pietà: non ne vengono letti i nomi in pubblico, non c’è notizia di veglie di preghiera e neppure di un rintocco di campane, per loro, nelle chiese cattoliche. Un silenzio del quale, un giorno, inevitabilmente, ci sarà chiesto conto.


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