Settantuno pagine, trentatremila cinquecentoventisei parole: la Corte internazionale di giustizia ha avuto bisogno di tutta questa carta per parlare di Israele. E di due righe — due e mezza, quarantuno parole — per ricordare il 7 ottobre. Quarantuno parole per il più grande massacro di ebrei dalla Shoah.
È questa la loro misura della giustizia: un orrore condensato in una nota a piè di pagina, un genocidio trasformato in formalità burocratica. I giudici dell’Aia non giudicano più, calibrano. Ponderano. Bilanciano. Come se la bilancia servisse a pesare i morti per fazione.
Chiamano equidistanza ciò che in realtà è codardia. Parlano di “diritto internazionale” ma agiscono come notai dell’ipocrisia. E mentre i tribunali scrivono, i sepolcri restano aperti.
Settantuno pagine contro Israele, due righe per i suoi morti. Il resto — giustizia compresa — se l’è già preso il silenzio.
Giustizia a righe
Giustizia a righe
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