C’è un’immagine che da sola racconta più di mille editoriali: sotto il vecchio complesso carcerario ottomano-britannico del Kishle, a pochi passi dalla Torre di Davide, gli archeologi israeliani hanno riportato alla luce un tratto di quaranta metri della grande cinta muraria asmonea. Cinque metri di spessore, probabilmente dieci di altezza originaria, costruita in quella pietra calcarea chiara che ancora oggi fa risplendere Gerusalemme. E mentre la si guarda emergere dal terreno, si capisce una cosa semplice: nonostante due anni di guerra durissima, Israele non ha smesso per un solo giorno di essere una società civile, creativa, culturale. Una società che continua a scavare, restaurare, studiare, narrare se stessa.
La scoperta, annunciata dall’Autorità israeliana per le Antichità, è una delle più estese e integre sezioni murarie mai ritrovate nella città antica. Risale al periodo asmoneo, seconda metà del II secolo a.C., pochi decenni dopo l’insurrezione dei Maccabei. Si tratta della cosiddetta “prima cinta”, una fortificazione monumentale che circondava non solo la zona oggi protetta dalle mura ottomane, ma anche il Monte Sion e la Città di Davide. Giuseppe Flavio la descriveva come imprendibile, irta di torri, simbolo della rinascita politica e militare ebraica dopo la dominazione seleucide.
Eppure quella muraglia non cadde sotto i colpi del nemico. Le pietre raccontano un’altra storia, più sofisticata. Non c’è traccia di crollo violento: la struttura fu smontata pezzo per pezzo, con precisione quasi ingegneristica. Gli archeologi propongono due piste. La prima riguarda la pace negoziata da Giovanni Ircano con Antioco VII Sidete, che avrebbe imposto lo smantellamento della fortificazione in cambio dell’autonomia. La seconda conduce a un nome che ancora oggi polarizza: il re Erode. Il “costruttore”, l’uomo che trasformò Gerusalemme in una capitale monumentale, potrebbe aver voluto cancellare i segni del potere asmoneo per affermare il proprio. Un gesto politico più che urbanistico: demolire il passato per fondare una nuova legittimità.
È questo il punto che merita attenzione oggi. Mentre molti, fuori da Israele, ripetono che il Paese sarebbe diventato un corpo irrigidito, incapace di produrre cultura e ricerca, ritrovamenti come quello del Kishle contraddicono la caricatura. Il lavoro degli archeologi non si è fermato un solo giorno, nemmeno con gli allarmi, le sirene, i riservisti richiamati. Si continua a scavare nelle prigioni abbandonate, a restaurare mura antiche, a interrogare la propria storia con una serietà che altrove si è persa. E non è solo un fatto accademico: è un gesto politico nel senso più alto. Una società che investe nella memoria materiale mentre combatte per la propria sicurezza mostra una vitalità che sfugge a chi la riduce a un monolite bellico.
La muraglia asmonea riemersa sotto il carcere è una metafora involontaria. Ricorda che Israele è costruito su strati successivi di resistenza, compromesso, distruzione e rinascita. E che ogni nuova scoperta archeologica tiene insieme queste dimensioni, mostrando come identità e ricerca, passato e futuro, guerra e cultura convivano nella stessa città, negli stessi metri quadrati. È una lezione che molti Paesi europei, pronti a pontificare e a semplificare, farebbero bene a osservare da vicino.
Gerusalemme sotto il carcere. La scoperta che smentisce chi parla di un Paese senza futuro
Gerusalemme sotto il carcere. La scoperta che smentisce chi parla di un Paese senza futuro

