La Germania ha deciso di chiudere i conti con una nuova forma di estremismo islamista cresciuta sotto gli occhi di tutti, mascherata da fenomeno social. Il ministero dell’Interno ha messo fuorilegge Muslim Interaktiv, gruppo nato nel 2020 e divenuto rapidamente un polo di propaganda per giovani islamisti tedeschi che sognano un califfato retto dalla sharia.
All’alba di mercoledì 5 novembre, operazioni coordinate a Berlino, Amburgo e in Assia hanno portato a perquisizioni in diciannove sedi e al sequestro dei beni dell’organizzazione. Contestualmente, sono stati avviati accertamenti su due sigle affini, Generation Islam e Realitaet Islam: stesso linguaggio, stessi simboli, lo slogan ricorrente «Il califfato è la soluzione».
Il ministro dell’Interno ha utilizzato parole inequivocabili: «Chi invoca la nascita di un califfato nelle nostre strade, chi incita all’odio contro Israele e disprezza i diritti di donne e minoranze troverà davanti a sé tutta la forza della legge». E ancora: «Non permetteremo che la nostra società libera venga corrosa dall’interno».
Ad aprile, Muslim Interaktiv aveva portato in piazza ad Amburgo oltre 1.200 persone, prevalentemente giovani, con cartelli che chiedevano apertamente la fine della democrazia tedesca e l’avvento di un regime religioso. Non reduci di moschee clandestine né militanti stereotipati: jeans, giacche alla moda, smartphone di ultima generazione, padronanza perfetta dei social. L’islamismo che parla la lingua di TikTok.
Secondo il Servizio federale per la protezione della Costituzione, Muslim Interaktiv rappresenta la nuova faccia di Hizb ut-Tahrir, gruppo bandito in Germania dal 2003 per istigazione all’odio antiebraico. La differenza è nei mezzi e nel registro: dove ieri circolavano opuscoli e predicatori, oggi dominano reel, video verticali e influencer capaci di confezionare messaggi radicali in estetica urbana.
Fra i volti più noti, Rahim Boateng, 26 anni, convertito nel 2015: dalla guerra di Gaza in poi, i suoi contenuti si sono fatti sempre più aggressivi — montaggi curati, colonna sonora incalzante, inviti all’odio verso Israele e alla “resistenza” contro «l’Occidente decadente». Migliaia di follower, soprattutto giovani di seconda generazione o neoconvertiti, attratti da un mix di spiritualità ribelle e politica identitaria.
Per Andy Groth, esponente socialdemocratico ad Amburgo, lo scioglimento del gruppo è «un colpo all’islamismo di TikTok». Una soddisfazione che non esclude la prudenza: questa ondata non nasce nel vuoto, ma da un decennio di integrazione mancata, errori politici e rimozioni culturali.
Oggi in Germania vivono circa 5,5 milioni di musulmani (circa il 6,6% della popolazione). La grande apertura del 2015, durante la crisi dei rifugiati, ha cambiato in profondità la composizione sociale del Paese. Ma la convivenza non si costruisce soltanto con accoglienza e buone intenzioni: gli attentati di matrice jihadista a Berlino, Würzburg, Vienna, Parigi e Nizza hanno lasciato un segno duraturo nell’opinione pubblica. Anche per questo l’AfD, destra radicale, è oggi stabilmente forte e in testa nei sondaggi dell’Est tedesco.
Sul versante politico tradizionale, Friedrich Merz, leader della CDU, invoca una linea più dura su immigrazione e islamismo politico. Il governo federale, dal canto suo, lega il contrasto ai divieti amministrativi e a un rafforzamento degli strumenti di sicurezza interni. Ma la vera sfida, avvertono molti osservatori, è culturale e digitale: vietare un gruppo serve a poco se linguaggi, simboli e miti continuano a circolare nei feed e nelle chat dei giovanissimi.
Questa vicenda mette a nudo un dato strutturale: l’ecosistema social consente a reti estremiste di scalare l’attenzione senza costi organizzativi elevati, ridefinendo la propaganda in chiave pop-islamista. L’imperativo securitario — sequestri, perquisizioni, scioglimenti — va quindi affiancato da programmi di alfabetizzazione digitale, da partnership con le piattaforme per limitare la viralità dei contenuti di incitamento e da percorsi di prevenzione nei quartieri più esposti alla predicazione radicale.
Il punto, in definitiva, non è solo Muslim Interaktiv. Dietro quel nome — nemmeno troppo schermato — c’è un’idea tossica: che la libertà sia ostacolo, la modernità peccato, la democrazia un travestimento dell’ordine “infedele”. L’Europa, e con essa la Germania, hanno spesso confuso tolleranza con resa. Il provvedimento di questi giorni dice che la lezione è stata capita: lo Stato di diritto difende se stesso non solo nei tribunali, ma anche negli spazi digitali dove oggi si reclutano, si addestrano e si motivano le nuove militanze.
Resta il lavoro lungo: intercettare i codici culturali che rendono attraente l’estetica del califfato, offrire alternative simboliche credibili, integrare scuola, associazioni e comunità religiose in un’alleanza che sottragga terreno alla propaganda. Bandire un marchio è il primo passo; prosciugare l’immaginario che lo alimenta è la strategia. In Germania, almeno per oggi, qualcuno ha cominciato a farlo.
Germania, stop ai pop-islamisti del “califfato digitale”
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