Ci siamo. O, peggio, ci risiamo. Continuano a ripetersi episodi – che ormai non solo episodi sono – di sottomissione ideologica delle democrazie occidentali. Questa volta – e non è la prima – tocca alla Germania dove il Natale non è stato cancellato per legge, né abolito per decreto ma in alcune città, è stato spento. A Berdberg, il sindaco ha deciso di annullare tutte le celebrazioni natalizie a un anno dall’attentato che causò cinque morti e centinaia di feriti, sostenendo che le festività “portano terrore”. Luci inerti, eventi annullati, piazze lasciate vuote. “Portano terrore” è una frase che pesa come un macigno, perché racconta molto più di quanto vorrebbe perché non descrive solo una paura, ma una visione del mondo che accetta l’idea che la violenza possa ridisegnare lo spazio pubblico europeo.
Vero è che la Germania conosce bene il trauma. L’attacco di Berlino del 2016 ha segnato una frattura profonda, trasformando per sempre il modo in cui le autorità guardano agli eventi di massa. Da allora, ogni mercatino di Natale è diventato un potenziale obiettivo, ogni folla un rischio da gestire. Barriere di cemento, controlli, pattugliamenti armati: tutto questo è ormai parte del paesaggio. Ma oggi siamo di fronte a qualcosa di diverso. Non più solo misure di sicurezza rafforzate, bensì la rinuncia preventiva. Il messaggio implicito è chiaro: se non possiamo garantire la sicurezza assoluta, allora meglio non celebrare.
Naturalmente, non tutta la Germania ha scelto questa strada. Nelle grandi città i mercatini restano aperti, protetti da dispositivi imponenti e costosi. Ma proprio qui emerge un altro nodo: la sicurezza ha un prezzo, e non tutti i comuni possono permetterselo. Per molte realtà medio-piccole, organizzare un evento pubblico significa affrontare spese enormi per barriere, personale, piani di emergenza. Così la paura si intreccia con i bilanci, e la soluzione più semplice diventa l’annullamento. Non per un divieto dall’alto, ma per esaurimento amministrativo.
Eppure il problema non è logistico, ma strettamente politico e culturale. Quando un sindaco dice che il Natale “porta terrore”, sta rovesciando il senso delle cose. Non è il Natale a portare terrore. È il terrorismo che porta terrore usando la paura come arma. Confondere i due piani significa accettare, magari senza dirlo apertamente, che la minaccia abbia già vinto una parte della battaglia: quella simbolica.
Qui si innesta una critica sempre più diffusa in Europa. Invece di affrontare il terrorismo islamista come un nemico ideologico e operativo, si preferisce restringere la vita pubblica, abbassare il profilo, ridurre le occasioni di incontro. È una strategia che non produce sicurezza, ma abitudine alla rinuncia. Si cede spazio, si normalizza l’eccezione, si interiorizza l’idea che alcune tradizioni siano diventate troppo pericolose per essere vissute.
Il paradosso è evidente. Le società europee si definiscono aperte, pluraliste, resilienti. Ma di fronte alla minaccia, la risposta non è sempre il rafforzamento della libertà protetta, bensì la sua compressione silenziosa. Nessun proclama, nessuna autocritica: solo un calendario svuotato e piazze spente.
Il Natale tedesco, quest’anno, è uno specchio. Riflette una domanda che riguarda tutta l’Europa: fino a che punto siamo disposti a cambiare il nostro modo di vivere per paura di essere colpiti? E soprattutto, chi decide dove passa il confine tra prudenza e resa? Perché quando è la violenza a dettare l’agenda, anche senza colpire, il danno è già fatto. E non serve cancellare il Natale per accorgersene. Basta spegnerne le luci.
Germania. Il Natale spento dalla paura
Germania. Il Natale spento dalla paura

