Contrordine: a Gaza non c’è carestia. Parola dell’Onu. Per mesi quella parola – carestia – è stata usata come una sentenza definitiva, una condanna politica prima ancora che umanitaria. Oggi l’Indice di Sicurezza Alimentare (IPC), organismo che opera per conto delle Nazioni Unite, corregge le proprie conclusioni: non è vero, e in nessuna area della Striscia.
È un cambiamento non da poco, che smentisce apertamente il rapporto dell’agosto 2025, quando l’IPC parlava di fame in atto a Gaza City e ne prevedeva l’estensione imminente ad altre zone. Quelle previsioni non si sono avverate. Detto in parole semplici: erano false, manipolatorie e vergognose.
Il nuovo rapporto riconosce un miglioramento della situazione nutrizionale dopo il cessate il fuoco, attribuendolo alla riduzione dei combattimenti e all’aumento degli aiuti umanitari e commerciali. Allo stesso tempo, però, insiste sulla presenza di una diffusa “insicurezza alimentare”, destinata a protrarsi nei prossimi mesi. È qui che si apre lo scontro politico. Israele contesta duramente l’impianto del documento, accusandolo di selettività e di conclusioni preconfezionate.
Secondo il Ministero degli Esteri israeliano, il rapporto IPC prende in considerazione quasi esclusivamente i camion delle Nazioni Unite, che rappresentano circa il 20 per cento del totale degli aiuti entrati nella Striscia. Vengono così ignorati i dati complessivi: tra i 600 e gli 800 camion al giorno, con una quota di cibo pari a circa il 70 per cento del carico. Durante il cessate il fuoco, affermano le autorità israeliane, sono entrati a Gaza circa 30.000 camion di generi alimentari, per oltre mezzo milione di tonnellate: una quantità che supererebbe di gran lunga il fabbisogno nutrizionale stimato per la popolazione.
Anche le IDF insistono su questo punto: il problema non è la mancanza di cibo, ma la sua distribuzione. Una tesi condivisa, almeno in parte, anche dall’Autorità Nazionale Palestinese, che individua nella gestione interna degli aiuti e nel controllo esercitato da Hamas il vero nodo della crisi. A rafforzare la posizione israeliana c’è anche il dato sui prezzi: tra luglio e novembre, secondo fonti ufficiali, il costo dei prodotti alimentari a Gaza sarebbe diminuito di oltre l’80 per cento, un indicatore difficilmente compatibile con uno scenario di carestia.
Il rapporto IPC, tuttavia, mantiene un impianto fortemente critico. Parla di 1,6 milioni di persone in condizioni di insicurezza alimentare acuta, di oltre 500.000 in stato di emergenza e di alcune migliaia ancora classificate come “catastrofiche”. Denuncia la distruzione delle infrastrutture, le limitazioni all’accesso alle terre agricole e le difficoltà burocratiche nell’ingresso di alcuni beni. Ma il punto politico resta: la carestia annunciata non c’è stata, e oggi lo stesso organismo che l’aveva proclamata è costretto a fare marcia indietro.
La correzione arriva tardi e senza una vera autocritica. Non c’è una riflessione sul peso che quelle parole hanno avuto nel dibattito internazionale, sull’impatto mediatico e diplomatico di un’accusa che ha alimentato campagne, risoluzioni e prese di posizione. Resta l’impressione di un rapporto che aggiusta i numeri ma non cambia il quadro, che rinuncia alla parola più esplosiva senza rinunciare all’impostazione accusatoria.
Insomma, la carestia scompare dai documenti, ma il sospetto resta. E con esso una domanda inevasa: quanta politica entra, ancora oggi, nella costruzione dei rapporti che dovrebbero limitarsi ai fatti?
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Gaza. Quando la carestia scompare, ma il sospetto resta
Gaza. Quando la carestia scompare, ma il sospetto resta

