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Gaza, la voce di un padre: «Hamas ci ha rubato il cuore»

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
Gaza, la voce di un padre: «Hamas ci ha rubato il cuore»

E ora chi lo racconta ai prodi della Flottiglia che un gazawi ha lanciato un circostanziato j’accuse contro gli assassini di suo figlio? Un ex preside di Gaza, Saad al-Mashhal, ha parlato con voce rotta ma lucidissima: «Ci avete bruciato il cuore. Ci avete rubato i soldi».

Suo figlio, Osama, lavorava in un centro di distribuzione a Khan Yunis. È stato ucciso, dice il padre, da uomini di Hamas. Non in battaglia, ma nella quotidianità della fame. Da qui l’accusa, secca come una sentenza: Hamas non protegge i gazawi, li usa. Li priva di dignità, li spoglia dei beni, li chiama a morire. E lo fa predicando religione mentre smentisce i suoi stessi precetti.

La registrazione è stata rilanciata dal Coordinatore delle Attività Governative nei Territori, il generale Rasan Alian. Ma il punto non è la fonte: è la crepa. È la voce che arriva dall’interno di Gaza e chiama le cose col loro nome. I “liberatori” che rubano, i “resistenti” che sparano sui lavoratori dei centri d’aiuto, il potere che preferisce cartoni di viveri alla verità sui morti. «Prima indagate sul sangue dei nostri figli», implora il padre. Niente gergo, niente slogan: solo la contabilità del dolore, che non ha bisogno di traduzioni.

Il quadro è semplice e feroce. Da mesi la Striscia vive di code, pacchi e paura. Chi controlla il territorio controlla la fame. E quando la fame diventa strumento politico, ogni magazzino è un avamposto e ogni fila un rischio. In questo schema Hamas non è un ombrello: è la tempesta. Decide chi riceve e chi resta a mani vuote, chi tace e chi paga. Impone silenzi con l’intimidazione, chiama “martirio” la resa dei civili, e quando la rabbia esplode la scarica su chi porta aiuti o osa chiedere conto.

Che cosa resta, allora, del racconto esportato nei porti europei, tra bandiere, megafoni e passerelle? Resta il disagio di chi, oggi, dovrebbe spiegare perché un padre di Gaza denuncia gli “eroi” che gli hanno ucciso il figlio. Resta l’ipocrisia di chi ascolta con devozione la propaganda e ignora il testimone più scomodo: quello che abita lì, paga il prezzo e non ha più nulla da perdere.

E resta una domanda semplice: di chi è il cuore bruciato? Del padre che chiede giustizia, o di chi ha trasformato i civili in scudi umani e moneta di scambio?

Ascoltare quella voce significa accettare che l’immagine è cambiata. Non per compiacere Israele o l’Occidente, ma per rispettare i gazawi che pagano il prezzo più alto. Se davvero teniamo alle vite in quella Striscia martoriata, bisogna spezzare il monopolio della menzogna: riconoscere che un movimento che usa la popolazione come pedina non è resistenza, è predazione.

Ripartire da qui: dalle parole di un padre che non fa propaganda, fa funerali. E che chiede, nudo e ferito: «Restituiteci i nostri figli, la nostra dignità, i nostri soldi». Il resto sono chiacchiere. E anche parecchio disgustose.


Gaza, la voce di un padre: «Hamas ci ha rubato il cuore»
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