L’eliminazione di Raed Saad non è stata certo un’operazione come le altre. Non si è trattato di un colpo tattico, né della rimozione di un comandante intermedio, ma dell’eliminazine di uno dei pilastri residui dell’ala militare di Hamas, un individuo che per trent’anni aveva attraversato tutte le stagioni del movimento, sopravvivendo a purghe interne, guerre, tentativi di uccisione mirati. Per Hamas, Saad non si qualificava soltanto come un dirigente; ne era memoria operativa, continuità, capacità di ricostruzione dopo il disastro. Ed è proprio questo che rende la sua morte così destabilizzante ma al tempo stesso così ambigua nei suoi effetti reali.
Saad era stato incaricato, negli ultimi mesi, di rimettere in piedi l’apparato militare dopo le batoste seguite al 7 ottobre. Israele lo considerava una preda di primissimo livello, al punto da aver messo una taglia molto alta sulla sua testa. La sua eliminazione, giustificata ufficialmente come risposta a una violazione del cessate il fuoco, è un messaggio strategico rivolto non solo a Hamas ma all’intero equilibrio post-bellico nella Striscia.
Il movimento islamista si trova ora intrappolato in un dilemma pressoché insolubile. Rispondere apertamente all’assassinio significherebbe offrire a Israele il pretesto per congelare la transizione verso la Fase II degli accordi, quella che dovrebbe consentire l’avvio della ricostruzione di Gaza mantenendo Hamas in posizione dominante. Tacere, invece, rischia di normalizzare un modello già visto altrove: quello libanese, in cui Israele colpisce sistematicamente quadri e comandanti senza provocare una reazione diretta. A Gaza questa prospettiva è vissuta come una minaccia esistenziale.
Eppure, nonostante l’eliminazione di quella che di fatto era l’ultima linea di comando storica, Hamas non può essere definita del tutto sconfitta. Il vuoto lasciato da Saad è stato rapidamente colmato da una struttura più orizzontale, meno visibile, ma ancora funzionante. Alla guida dell’ala militare emerge Izz ad-Din al-Haddad, uomo d’apparato, cresciuto sul campo, parte del ristrettissimo gruppo che conosceva in anticipo i dettagli dell’attacco del 7 ottobre. E’ proprio lui ad incarnare il nuovo volto della leadership del gruppo terrorista: meno carismatica, più clandestina e insieme più adattabile. Un comando che accetta di perdere figure simboliche pur di preservare la capacità di controllo.
Accanto a lui operano figure come Muhammad Odeh, responsabile dell’intelligence interna, che garantisce continuità informativa e disciplina, e una rete di comandanti locali sopravvissuti a più tentativi di eliminazione, riemersi puntualmente dopo essere stati dati per morti. Sul piano politico restano personaggi storici, ormai marginali ma utili a mantenere una parvenza di struttura istituzionale, mentre il potere reale si concentra sempre più nelle mani di chi controlla uomini, armi e territorio.
Qui sta il punto che molti, in Israele, faticano ad accettare: Hamas oggi è più debole, più esposta, più vulnerabile, eppure resta l’unica autorità effettiva nella Striscia di Gaza. Ha ripreso il controllo della vita quotidiana di due milioni di persone, gestisce sicurezza, distribuzione e, manco a dirlo, repressione senza che ci sia un attore esterno pronto a sostituirla a patto di decidere un nuovo intervento militare su larga scala.
La morte di Raed Saad è dunque un colpo durissimo, ma non risolutivo. Chi immagina un collasso imminente dell’organizzazione rischia di ripetere lo stesso errore degli ultimi due anni. Hamas ha perso quasi tutti i suoi leader storici, eppure è ancora lì. Malridotta, ma sempre padrona di casa.
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Gaza. Dopo Raed Saad, Hamas senza vertici ma non senza potere
Gaza. Dopo Raed Saad, Hamas senza vertici ma non senza potere

