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“Free Palestine” non basta: servono verità, coraggio e complessità

Giovanni Villino

Tempo di Lettura: 5 min
“Free Palestine” non basta: servono verità, coraggio e complessità

Oggi, in molte piazze italiane, si è scioperato “per Gaza”. Ho visto donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini sfilare con le bandiere della Palestina: rosso, nero, bianco e verde a riempire le strade delle grandi città. I social hanno acceso i riflettori, le dirette sono partite, i cori si sono levati. Un grido su tutti: Free Palestine.
Chi è sceso in strada ha portato il proprio volto in rete come attestato di presenza, come merito pubblico, quasi come un lasciapassare morale.

Ma in tutto questo – in quella narrazione che scorre tra post, reel e slogan – c’è qualcosa che manca. O, forse, qualcosa che si sceglie di non dire.
Troppi video sembrano seguire un copione preconfezionato: tutto è costruito per generare un’emozione collettiva, intensa, ma breve. Un lampo. E poi più nulla. Nessuna voglia di approfondire, nessun tentativo di affrontare la complessità tragica di ciò che accade davvero a Gaza – e nel resto del Medio Oriente.

Sia chiaro: di fronte alle immagini che arrivano da Gaza – i corpi senza vita, i bambini straziati, le città ridotte in macerie – è inevitabile provare dolore, indignazione, compassione. Emozioni umane, giuste, necessarie. Guai se non fosse così.
Ma non basta commuoversi. Non basta indignarsi. Occorre fare un passo in più: porsi domande, analizzare, comprendere. E avere il coraggio di vedere anche quello che disturba la narrazione dominante.

La storia ce lo insegna: viviamo immersi in un’ipocrisia di ritorno.
Ricordo il povero bimbo siriano trovato morto sulla spiaggia: la sua immagine fece il giro del mondo. Commozione globale. E poi? Silenzio. Della Siria oggi si parla appena. Non perché le sofferenze siano finite, ma perché non sono più al centro del racconto pubblico. Così accade con molte tragedie, molte guerre, molte periferie del mondo: dimenticate non per risoluzione, ma per disinteresse narrativo.

Torniamo a Gaza. Quelle immagini ci scuotono, ci interrogano. Ma la differenza sta tutta qui: una cosa è lasciarsi attraversare dal dolore, un’altra è rinunciare al senso critico e trasformarsi in megafoni di messaggi confezionati, semplificati, ideologici.
La storia lo ha dimostrato troppe volte: le immagini possono essere armi. Un’inquadratura scelta, un video tagliato, una frase isolata bastano a costruire un racconto emotivamente potente ma, spesso, lontano dalla realtà complessa dei fatti.

È legittimo commuoversi. È doveroso indignarsi. Ma è irresponsabile smettere di domandarsi se ciò che vediamo – e condividiamo – sia verità o soltanto una parte di essa, magari filtrata da chi ha interesse a indirizzare l’opinione pubblica.
Perché la propaganda, quella vera, non nasce dal falso: nasce da una verità parziale, emotivamente carica, ma usata per azzerare le sfumature, per semplificare la realtà, per schiacciare il pensiero critico.

È così che l’empatia diventa strumento di manipolazione. È così che la pietà per le vittime civili si trasforma in un’arma retorica per fini che nulla hanno a che fare con la giustizia.

E qui arriva un nodo che troppi evitano di toccare. Un nodo scomodo, ma essenziale.

Hamas non è la Palestina.
È un’organizzazione che ha preso il potere con la forza, che governa Gaza dal 2007 senza elezioni libere, che reprime ogni dissenso, controlla i media, zittisce le opposizioni. Hamas ha imposto una logica militare, ha sostituito la politica con il fanatismo religioso, ha sacrificato lo sviluppo sull’altare dell’economia di guerra.
La sua promessa di “resistenza” si è tradotta in una condanna alla miseria per milioni di civili.

Eppure, quanti hanno il coraggio di gridare, insieme a Free Palestine, anche Free Palestine from Hamas?

Perché la libertà non può essere selettiva.
Non si può invocare la liberazione di un popolo senza denunciare chi, all’interno di quel popolo, ne è oppressore quotidiano. Chi lo tiene in ostaggio con il linguaggio delle armi, della paura, della propaganda.

Troppi dimenticano – o fingono di dimenticare – che Hamas non rappresenta tutto il popolo palestinese. Ne ha sequestrato il destino.
Governa Gaza con l’imposizione, non con il consenso. Soffoca ogni voce dissidente. Cancella diritti civili, silenzia giornalisti, usa i civili come scudi umani.
Parlare di libertà senza riconoscere questa realtà significa raccontare solo metà della verità. Significa tradire proprio quelle persone – quei civili palestinesi – che si vorrebbero difendere.

Free Palestine ha senso solo se è un grido che pretende libertà da ogni forma di oppressione: da quella israeliana, certo, ma anche da quella islamista e totalitaria di Hamas. Ha senso solo se è un appello alla coesistenza, alla giustizia per tutti, alla fine della violenza, da ogni parte.

Gridarlo senza questa consapevolezza non è un atto di giustizia, ma di superficialità.
È trasformare la tragedia di un popolo in uno slogan comodo. È ridurre un conflitto complesso a folklore politico. È agitare una bandiera senza chiedersi chi, davvero, ne sta pagando il prezzo.

E la storia – anche questa – ce la presenterà, prima o poi, come un conto da saldare.


“Free Palestine” non basta: servono verità, coraggio e complessità
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