Parlo come giurista, come donna di legge e come cittadina di un’umanità che ha imparato sulla propria pelle cosa significhi l’odio travestito da linguaggio giuridico. La Shoah e le sue lezioni, così come i crimini odierni commessi da regimi totalitari, ci obbligano a vigilare.
Ho letto con profonda attenzione e senso di responsabilità il recente rapporto presentato da Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, intitolato From the Economy of Occupation to the Economy of Genocide. Un documento che, per chi come me crede nella giustizia, nella pace tra i popoli e nella difesa del diritto internazionale, impone una riflessione seria, dolente e — mi sia concesso — ferma.
1. La Storia stravolta: la delegittimazione di Israele come Stato
Il rapporto riscrive radicalmente la storia della nascita di Israele, reinterpretandola secondo uno schema ideologico che mira a minarne la stessa legittimità.
Secondo Albanese, il progetto sionista sarebbe stato fin dall’inizio un’«impresa coloniale aziendalizzata», iniziata nel 1901 con l’acquisto di terre da parte del Jewish National Fund e culminata, attraverso una narrativa ininterrotta di occupazione e pulizia etnica, nella «Nakba» del 1948.
Ma la storia, qui, viene gravemente distorta. L’acquisto di terreni da parte di organizzazioni ebraiche nei primi decenni del XX secolo fu legale, pacifico e spesso effettuato da latifondisti assenti. Parlare di «colonialismo» nei termini usati da Albanese, senza alcun riferimento al contesto storico del mandato britannico, alla Shoah, all’esilio millenario del popolo ebraico, alle persecuzioni subite, alla Conferenza di Sanremo, alle risoluzioni ONU del 1947 e all’espulsione di centinaia di migliaia di ebrei dai Paesi arabi, è un’operazione ideologica che cancella il diritto e la sofferenza.
Non si trova nel rapporto alcuna menzione del fatto che lo Stato di Israele nacque con riconoscimento ONU, in un territorio dove la presenza ebraica era millenaria, secondo un piano di spartizione accettato dagli ebrei e rifiutato dai Paesi arabi. Il giorno dopo la proclamazione dello Stato, cinque eserciti arabi tentarono di distruggerlo. Attribuire la «Nakba» a un progetto coloniale e non a una guerra voluta e persa è un grave falso storico.
È falso anche affermare che Israele sia uno Stato «razzializzato» fondato sulla supremazia. Israele garantisce pari diritti a tutti i suoi cittadini. Ci sono giudici della Corte Suprema, primari, docenti e giornalisti arabi. Quella della relatrice ONU è una narrazione tossica, che mistifica i fatti e alimenta l’odio, negando al popolo ebraico il diritto di esistere nella propria terra.
Grave anche l’affermazione secondo cui gli Accordi di Oslo del 1993 rappresenterebbero «un’ulteriore istituzionalizzazione dello sfruttamento». Quegli accordi furono firmati da Rabin e Arafat, e ridurli a trappola coloniale è un insulto alla memoria di chi credeva nella pace. E vi ha sacrificato la vita.
2. L’assenza del 7 ottobre: una ferita negata
Il rapporto non contiene alcuna menzione del massacro del 7 ottobre 2023, compiuto da Hamas contro civili israeliani. Non è una svista: è una rimozione colpevole. E, moralmente, mostruosa.
Non si può parlare dei crimini di guerra senza nominare l’attacco che li ha innescati. Ignorare lo sterminio deliberato di civili, gli stupri, le decapitazioni, i rapimenti di donne e bambini, vuol dire costruire una narrazione storicamente monca e moralmente fragile.
3. Il linguaggio militante che contraddice il mandato ONU
Albanese usa un linguaggio ideologico, non giuridico: «settler-colonial apartheid», «economia del genocidio», «razzismo sistemico». Espressioni gravi, prive di rigore, e lontane dalla neutralità che dovrebbe ispirare un incarico ONU.
Un relatore speciale non è un attivista. Quando abdica ai principi di imparzialità, non difende la giustizia. La tradisce.
4. Un pluralismo epistemico totalmente assente
Nel rapporto non c’è traccia di fonti israeliane, né di testimonianze delle vittime del 7 ottobre. Nessun riferimento alle violazioni dei diritti umani da parte di Hamas. Nessun contraddittorio. Solo fonti ideologicamente schierate.
Questa unilateralità è disumanizzazione selettiva.
5. Il Diritto Internazionale Umanitario piegato all’ideologia
Il rapporto pecca anche dal punto di vista giuridico.
5.1 Obbligo di distinzione e proporzionalità ignorato
Hamas viola sistematicamente i principi di distinzione e proporzionalità, usando civili come scudi umani, nascondendo armi in ospedali e scuole, e fondendosi con la popolazione. Il DIU prevede che chi utilizza scudi umani è corresponsabile delle vittime civili. Ma Albanese ignora queste violazioni.
5.2 Il diritto all’autodifesa cancellato
Israele ha diritto alla legittima difesa, come stabilito dall’art. 51 della Carta ONU. Nel rapporto, questo principio è assente. Israele appare come aggressore, mai come vittima di un attacco terroristico.
5.3 Il termine “genocidio” usato come arma politica
La Convenzione del 1948 definisce il genocidio come atto commesso con «intento specifico» di distruggere un popolo. Albanese non prova mai questo intento con elementi concreti. Usa fonti di parte, dichiarazioni decontestualizzate e dati forniti da Hamas, trasformando il concetto giuridico in un’arma retorica.
5.4 Metodo viziato e selezione delle fonti
L’assenza di neutralità metodologica mina la credibilità del documento. È un uso improprio del diritto che rischia di renderlo inefficace proprio dove servirebbe davvero.
6. Il diritto alla sicurezza dimenticato
Israele, come ogni Stato, ha diritto alla sicurezza. Ma per Albanese, Israele è solo un’entità coloniale, senza storia, senza legittimità, senza diritto all’esistenza. È una visione ideologica, non giuridica. E pericolosa.
7. Effetti devastanti sul discorso pubblico e sulla convivenza
Definire «genocida» l’intera economia israeliana disumanizza un intero popolo. Nessun’altra comunità è stata mai descritta così da un rappresentante ONU. Dopo gli attentati jihadisti, nessun musulmano occidentale è stato demonizzato in blocco. Qui, invece, ogni ebreo rischia di essere visto come complice.
È inaccettabile. Per chi crede nei diritti umani. Per chi crede nella verità.
In nome della pace vera, non ideologica.
La mia speranza è che da parte delle istituzioni internazionali possa sorgere un linguaggio nuovo: neutrale, veritiero; non cieco, ma profetico; non strumentale, ma radicato nel riconoscimento reciproco.
In questo momento storico, Israele ha diritto di essere raccontata giustamente. Non isolata. Così come il popolo palestinese ha diritto alla libertà, alla dignità e a una vita senza oppressione né terrorismo.
Chi mente su Israele e dimentica i crimini di Hamas tradisce anche quella grande parte del popolo palestinese che vorrebbe, si spera, vivere in pace e non essere soggetta a un regime terroristico, misogino, omofobo, dittatoriale, sovvenzionato dal regime iraniano (altro campione di mostruosità e persecuzione, vera fonte di tutta l’instabilità mediorientale).
Difendere Israele non significa negare i diritti dei palestinesi. Significa rinforzarli. Significa tenere alle vite di tutti. Significa affermare che ogni popolo ha diritto di vivere senza menzogne, senza terrorismo, senza essere usato come arma ideologica, senza guerra.
La pace non si costruisce cancellando la storia ebraica, ma riconoscendo la verità nella sua interezza. La pace si fa in due. È tempo che le Nazioni Unite tornino a essere davvero ciò che il loro nome promette: un patto fra umani, non una tribuna per la propaganda. Aggiungo. Questo mondo ha bisogno di amore, non di altro odio.
Francesca Albanese e la verità negata: quando il diritto diventa ideologia Francesca Albanese e la verità negata: quando il diritto diventa ideologia Francesca Albanese e la verità negata: quando il diritto diventa ideologia