Greta Thunberg ha annunciato la nascita della «Global Sumud Flotilla», definendola «il più grande tentativo di rompere l’assedio su Gaza». Per chi non lo sapesse, sumud in arabo significa «fermezza» o «resilienza» — un termine carico di significato politico, nato nel linguaggio del nazionalismo palestinese e usato per evocare la resistenza contro Israele. Non si tratta quindi di un’espressione casuale, ma di una dichiarazione d’intenti che piazza subito l’iniziativa dentro una precisa cornice ideologica.
Il piano, del resto, è chiaro: un corteo di decine di imbarcazioni salperà il 31 agosto con rotta verso le acque israeliane. Nello script degli organizzatori, sarà un’operazione “umanitaria”; nella realtà, una regata ideologica, erede di una tradizione ben rodata. Non è la prima volta, anzi: negli ultimi anni le flottillas si sono moltiplicate, assumendo sempre più l’aspetto di una disciplina semi-sportiva, nobilitata da una missione morale. Una sorta di Coppa America della protesta, dove il traguardo non è un trofeo ma il momento in cui le navi israeliane si avvicinano per fermarti.
Il copione è sempre lo stesso: partenza tra interviste e selfie, navigazione documentata in diretta sui social, intercettazione in mare aperto, arresto o respingimento, e infine conferenza stampa. Un ciclo che garantisce visibilità agli attivisti, un po’ di tensione (e molta perdita di tempo) alle autorità israeliane, e un pacchetto di immagini pronte per media e propaganda. Sul piano geopolitico, invece, l’effetto è prossimo allo zero: il blocco resta, la politica non cambia, i rapporti di forza non si spostano di un millimetro.
Ma Greta Thunberg ha fiuto per il palcoscenico. Venerdì 8 agosto lo ha dimostrato al festival Syd for Solen di Copenhagen. Invitata dal cantautore britannico Sam Fender, è salita sul palco durante il momento clou del concerto: platea gremita, luci pronte per l’ultimo brano, e intorno a lei un gruppo di attivisti con bandiere palestinesi. La scena, studiata con cura, ha trasformato un set musicale in un atto politico ad alta intensità emotiva. Il mare poteva aspettare: per quella sera la battaglia si combatteva sotto i riflettori, davanti a un pubblico pronto a condividere e moltiplicare il messaggio sui social.
Quell’apparizione ha chiarito la strategia: la protesta non vive solo nelle acque internazionali, ma cerca ogni spazio in cui la visibilità può esplodere, che sia un festival musicale, una trasmissione televisiva o un hashtag virale. Non è improvvisazione, ma regia: una regia che combina indignazione e spettacolo, capace di adattarsi a qualsiasi palcoscenico. Perché, nell’epoca in cui la politica si misura in like e visualizzazioni, saper unire emozione e immagine è più incisivo di qualsiasi dichiarazione diplomatica, di qualsiasi ragionamento, di qualsiasi ricostruzione reale e onesta dei fatti.
Resta da capire se queste flottillas siano davvero strumenti di pressione politica o, piuttosto, rituali autoreferenziali che si autoalimentano. Ogni edizione promette di cambiare le cose, ma finisce per confermare l’immagine di un movimento che sa navigare meglio nella corrente della comunicazione globale che in quella, ben più ostile, della diplomazia reale. Greta, in questo, si muove con indubbia abilità: cavalca le onde della protesta e quelle della notorietà, e sembra sapere che, almeno per ora, le seconde siano le uniche tra le quali può navigare con la certezza di arrivare lontano, festosamente scortata dai gozzi e dalle pilotine compiacenti di editorialisti e politici senza scrupoli.
Flottillas, dal mare al palco: la nuova regata della protestaFlottillas, dal mare al palco: la nuova regata della protesta Flottillas, dal mare al palco: la nuova regata della protesta