Bastava uno spicchio di arcobaleno per svelare la natura reale della cosiddetta “flottiglia umanitaria”. Non è un fronte dei diritti, non è un convoglio per la libertà: è un corteo di purezza ideologica, dove si entra col lasciapassare della conformità. Appena un attivista si dichiara queer, scatta l’esclusione con puntualità burocratica: grida al tradimento, accuse di contaminazione, anatemi sui “valori violati”. E Khaled Boujemâa, coordinatore di turno, abbandona la missione non per i morti di Gaza o per gli ostaggi nelle mani dei carnefici, ma per l’orrore di dover condividere la coperta con chi non rientra nel catechismo morale del gruppo.
Boujemâa se n’è andato accusando gli organizzatori di aver “nascosto” la presenza di un attivista queer. La propal Mariem Meftah ha trasformato quel termine maledetto in minaccia scolastica e familiare; il conduttore Samir Elwafi ha proclamato che la causa è “prima di tutto dei musulmani” e che voci LGBT “profanano” la sacralità del corteo. Non c’è nulla di umanitario qui: c’è un confine morale, una dogana del costume, la polizia dei corpi.
E si capisce bene chi organizza davvero. Dietro l’icona pop della “flottiglia per la libertà” c’è una regia politico-ideologica che usa la causa palestinese come contenitore di purezza e disciplina. Non è un caso che emerga il nome di un dirigente vicino a Hamas. Non è un caso che i toni siano quelli della scomunica religiosa. La parola chiave non è soccorso, è controllo. Non è solidarietà, è ortodossia delle più becere. La nave diventa un pulpito, che non tollera sfumature: serve il bianco e nero, il peccatore da espellere, il nemico da marchiare come “deviante”.
La scena è di un’ipocrisia perfetta. Ci si presenta come voce dei diritti universali e al primo bivio si enuncia la gerarchia: i diritti valgono solo per chi rispetta il manuale. Si invoca la “coscienza umana” e poi si riduce la coscienza a un tesserino etico. È la fine della favola comoda per molti europei: il “campo dei buoni” che non discrimina, che abbraccia tutti gli oppressi. Non è così. Appena entra in scena una minoranza scomoda, l’alleanza si spacca e la retorica dei diritti evapora.
E resta una domanda politica: se una flottiglia non regge la presenza di un attivista queer, come immagina di misurarsi con un regime terrorista che usa i civili come scudi? Se la nave si spacca su un pronome, di quale resistenza parla? La risposta è chiara: questa non è una missione di pace, ma una campagna di propaganda che trasforma il dolore in strumento e la diversità in colpa.
La “flottiglia della libertà” non naviga verso Gaza ma contro chi non rientra nel canone. Si consegna, con zelo, a una regia che della libertà fa merce e della diversità fa delitto. Non chiedete comprensione, né indulgenza. Fate pena e rabbia.
Flottiglia della purezza: esclusi i queer dalla nave per Gaza
Flottiglia della purezza: esclusi i queer dalla nave per Gaza