Le immagini che arrivano dall’Iran, al quarto giorno di rivolta di piazza, consegnano a questo fine anno un bagliore di speranza raro, quasi inatteso. Non perché il regime sia sul punto di cadere, ma perché per un istante – breve, fragile, prezioso – tutto sembra possibile. È uno di quei momenti, nella storia come nella vita individuale, in cui le crepe diventano visibili e il futuro smette di apparire scritto una volta per tutte.
Ogni fine anno è tempo di bilanci e di promesse. Ma questo passaggio di calendario pesa più di altri. Per Israele il 2025 è stato un anno decisivo: tutti gli ostaggi sono stati riportati a casa, i vertici di Hamas e delle sue articolazioni terroristiche sono stati colpiti, neutralizzati, ridotti al silenzio operativo. Un risultato che non è solo militare, ma simbolico. E tuttavia non basta.
Hamas è ancora in piedi. Il pericolo per chi vive in Israele resta concreto, quotidiano, strutturale. E, soprattutto, la sicurezza degli ebrei nel mondo è oggi più fragile di quanto non fosse prima del 7 ottobre. La guerra non si combatte solo nei tunnel o nei cieli del Medio Oriente: si combatte nelle università, nelle piazze europee, nei talk show, nelle ambiguità del linguaggio pubblico.
In questo quadro si inserisce un fatto che segna un punto di non ritorno anche per il dibattito italiano. L’inchiesta aperta dalla Procura di Genova su Mahmoud Hannoun apre uno scenario inquietante e, insieme, una possibilità di verità. È inquietante perché conferma quanto il terreno fosse già da tempo contaminato; è una possibilità di speranza perché le denunce avanzate da Setteottobre da mesi, spesso nel silenzio generale, iniziano finalmente a tradursi in atti giudiziari, accertamenti, responsabilità.
Oggi molti esponenti politici del fronte propalestinese sostengono di non aver mai visto né conosciuto Hannoun. Non gli crediamo. Noi sappiamo bene quanto siano radicate e pericolose le infiltrazioni delle reti del fondamentalismo islamico nei circuiti universitari, nei movimenti antagonisti, nelle aree grigie dell’attivismo militante. E sappiamo anche che queste reti lambiscono, talvolta con sorprendente disinvoltura, pezzi di forze politiche presenti in Parlamento. Seguiremo con la massima attenzione ogni sviluppo dell’inchiesta, pronti a darne conto puntualmente. Perché qui non è in gioco una polemica, ma un nodo di sicurezza nazionale, di legalità democratica, di responsabilità pubblica.
In Italia, nel 2025, l’antisemitismo ha raggiunto vette abissali. Gli episodi denunciati – quelli più violenti, più manifesti, più espliciti – sono cresciuti del 450% in un solo anno. Non si tratta di percezioni, ma di dati. E quei dati raccontano una normalizzazione dell’odio, una sua legittimazione strisciante, spesso mascherata da militanza politica, da indignazione selettiva, da retorica umanitaria a senso unico.
Il 2026 si apre con una doppia scommessa. Sul piano internazionale, con la pace di Sharm el-Sheikh, che potrà esistere davvero solo se la fase due verrà applicata senza ambiguità: disarmo completo di Hamas, espulsione di ogni infrastruttura del fanatismo terrorista dalla Striscia di Gaza. Senza questo passaggio, ogni tregua resterà una pausa armata, ogni accordo un rinvio del prossimo conflitto.
Sul piano interno, invece, il nuovo anno si apre con una sfida tutta italiana: la Giornata della Memoria del 27 gennaio. Quest’anno non può essere uguale a nessun altro 27 gennaio. Non può ridursi a rituale, a commemorazione stanca, a esercizio retorico buono per tutte le stagioni. Deve diventare un giorno di verità. Deve essere il giorno in cui la protesta degli ebrei italiani si faccia vedere e sentire. Non contro qualcuno, ma contro qualcosa: il manto di ipocrisia che continua a coprire i rapporti civili, la doppia morale che condanna l’antisemitismo solo quando è comodo, il silenzio imbarazzato di troppe istituzioni culturali e politiche.
C’è poi un bilancio che riguarda anche noi. Cogliamo questo passaggio d’anno per fare il punto su Setteottobre, che nel corso del 2025 è cresciuto in modo esponenziale. Setteottobre non è più soltanto un sito: è oggi una testata registrata, e insieme è cresciuta in modo significativo anche la voce dell’Associazione che la sostiene. Sono aumentati i numeri – degli amici che ci hanno raggiunti, che ci leggono, che condividono i nostri contenuti – ma soprattutto è cresciuto il peso politico e culturale della testata nello spazio del dibattito pubblico. Una voce riconoscibile, scomoda, necessaria.
La sua missione si sta facendo sempre più chiara e sempre più urgente. Raccontare ciò che altri rimuovono, chiamare le cose con il loro nome, difendere Israele e la sicurezza degli ebrei senza ambiguità, smascherare l’antisemitismo quando si traveste da ideologia, da attivismo o da moda intellettuale. È per questo che Setteottobre si appresta ad affrontare il 2026 all’altezza delle sfide del nostro tempo, con la consapevolezza che la battaglia per la verità, oggi, è una battaglia politica nel senso più alto e più serio del termine.
Se le piazze iraniane ci ricordano che anche l’impossibile può tornare pensabile, il 27 gennaio ci impone di scegliere da che parte stare. Non a parole, ma nei fatti. Perché la memoria, senza responsabilità, è solo un esercizio sterile. E perché questo tempo, più di altri, non consente più alibi: seguiteci ogni giorno, Setteottobre sotto la nuova direzione saprà darci le chiavi per interpretare il nostro tempo.
Aldo Torchiaro
Fine anno, tempo di verità
Fine anno, tempo di verità

