La Corte penale internazionale ha respinto il ricorso presentato da Israele sulla procedura dell’inchiesta legata alla guerra a Gaza, infliggendo quello che molti osservatori definiscono un colpo politico prima ancora che giuridico. Con una decisione presa a maggioranza, la Camera d’appello dell’Aia ha stabilito che il procuratore non è tenuto a inviare una nuova notifica preliminare a Israele ai sensi dell’articolo 18(1) dello Statuto di Roma, né a “riavviare” il meccanismo procedurale dopo il 7 ottobre 2023. Tradotto: l’inchiesta va avanti, senza ulteriori ostacoli formali.
Il cuore della controversia è il principio di complementarità, uno dei pilastri teorici della Corte. In base a questo principio, la CPI dovrebbe intervenire solo quando uno Stato non è in grado o non ha la volontà di indagare seriamente sui presunti crimini commessi dai propri cittadini. Israele ha sostenuto che l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la guerra successiva costituiscono una situazione nuova, tale da imporre al procuratore un nuovo passaggio formale di notifica, proprio per consentire allo Stato di dimostrare che il suo sistema giudiziario sta operando. I giudici non hanno accolto questa tesi, ritenendo che non vi fosse alcun obbligo di una nuova notifica né elementi tali da giustificare una “reset” procedurale.
La decisione si inserisce in un contesto già fortemente deteriorato. Negli ultimi mesi la CPI ha emesso mandati d’arresto contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, un atto senza precedenti nei confronti di un Paese democratico dotato di una magistratura indipendente e funzionante. Mandati che restano pienamente in vigore e che, al di là della loro concreta eseguibilità, hanno un peso simbolico e politico enorme. Israele ha tentato più volte di rallentare o circoscrivere l’azione della Corte, contestandone la competenza e richiamando il fatto di non essere parte dello Statuto di Roma. Tutti questi tentativi sono stati respinti.
Sul piano giuridico, la CPI continua a sostenere di avere competenza sulla cosiddetta “situazione in Palestina”, aperta formalmente nel 2021 sulla base di un rinvio del 2018. È una costruzione contestata da numerosi giuristi, che sottolineano come la Corte stia di fatto riconoscendo una soggettività statale a un’entità che non soddisfa i requisiti classici del diritto internazionale e che non esercita un controllo sovrano effettivo. Una forzatura che, secondo molti analisti, ha aperto la strada a un uso selettivo e politicizzato dello strumento penale internazionale.
La reazione israeliana è stata durissima. Il ministero degli Esteri ha parlato di una decisione adottata a stretta maggioranza che priva Israele di un diritto fondamentale previsto dal principio di complementarità, accusando la Corte di agire come un attore politico mascherato da tribunale. Un’accusa che non nasce oggi. Da anni Israele denuncia una sproporzione evidente nell’attenzione della CPI, a fronte del silenzio o della lentezza mostrata verso regimi autoritari, guerre civili sanguinose e crimini di massa documentati in altre parti del mondo.
Il punto non è solo Israele. La decisione dell’Aia rafforza l’idea che la CPI stia progressivamente scivolando da strumento giuridico a campo di battaglia politico, dove il diritto viene piegato alle pressioni e al clima internazionale. Quando il principio di complementarità viene svuotato e applicato in modo selettivo, il rischio è evidente: non quello di rafforzare la giustizia internazionale, ma di delegittimarla. E di trasformare la Corte in ciò che i suoi fondatori avevano promesso di evitare.
Europa. La Corte contro Israele: quando il diritto smette di essere neutrale
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