Quando l’Unione Sovietica crolla, nel 1991, per gli ebrei dell’ex impero si apre una porta che per decenni era rimasta sbarrata. Dietro quella porta c’è una parola che in URSS aveva il sapore dell’eresia: uscire. Emigrare. Fare aliyah.
Per anni erano stati “prigionieri di uscita”: schedati come ebrei sui documenti, discriminati all’università e nel lavoro, ma al tempo stesso trattenuti a forza dentro i confini. Chi chiedeva il visto per Israele diventava refusenik, un proscritto interno: niente carriera, niente viaggi, spesso controllo del KGB, interrogatori, umiliazioni.
Con la perestrojka prima e il collasso dell’URSS poi, la diga salta. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, circa un milione di ebrei sovietici lascia l’ex Unione, e la maggior parte sceglie Israele. È un’ondata che cambia tutto: la demografia, l’economia, perfino il paesaggio umano del Paese. Arrivano fisici nucleari che fanno i tassisti, ingegneri che puliscono scale, musicisti che suonano nei sottopassaggi. L’ascensore sociale riparte da piano terra, ma con dentro un capitale umano enorme.
Non è una storia romantica: è dura, spigolosa e piena di conflitti. I “russi” vengono visti come freddi, laici, sospettati di non essere “abbastanza ebrei”; loro, a loro volta, guardano con sarcasmo la burocrazia israeliana e l’improvvisazione mediorientale. Eppure, nel giro di pochi anni, riempiono i laboratori, le orchestre, le facoltà di matematica, i reparti hi-tech e le unità d’élite dell’IDF.
L’emigrazione del 1991 non è solo una pagina di storia dell’ebraismo sovietico: è uno degli atti fondativi dell’Israele contemporaneo. Senza quel milione di persone, oggi il volto del Paese – culturale, scientifico, politico – sarebbe irriconoscibile.
Emigrazione degli ebrei russi del 1991

