Se ne sono accorti. A Londra, a Canberra, a Ottawa. Nel mondo anglosassone l’antisemitismo non è più un rumore di fondo, ma un’emergenza politica e democratica. Il Commonwealth apre gli occhi e lo fa nel modo più netto possibile: adottando un Piano strategico che non si limita a denunciare l’odio, ma lo analizza, lo nomina, lo incardina nelle istituzioni e propone una batteria di iniziative urgenti. Il Special Envoy’s Plan to Combat Antisemitism nasce così: non come gesto simbolico, ma come atto di governo, figlio di una presa d’atto tardiva e drammatica. Perché quando le sinagoghe bruciano, le università diventano ostili e la parola “ebreo” torna a essere una colpa, non siamo più nel campo dell’opinione. Siamo già oltre la soglia.
Il documento del Commonwealth parte da una consapevolezza che in Europa fatica ancora a farsi strada: l’antisemitismo non è una patologia marginale né una regressione folcloristica del Novecento, ma un indicatore avanzato della crisi democratica. Quando riemerge, quando diventa linguaggio accettabile, posture culturali, talvolta persino policy implicita, segnala sempre qualcosa di più profondo: la perdita di anticorpi dello Stato liberale. L’Australia lo scrive senza infingimenti e lo fa nel momento in cui anche Canada e Regno Unito registrano un’escalation quotidiana di aggressioni, incendi dolosi, minacce, intimidazioni nelle scuole, nelle università, nei quartieri ebraici. Non episodi isolati, ma una continuità. Non rabbia spontanea, ma un ecosistema.
Il Piano individua con precisione i fattori di questa nuova ondata: disinformazione digitale, radicalismo ideologico, attivismo identitario, rimozione sistematica della storia, uso strumentale del linguaggio dei diritti. L’antisemitismo contemporaneo non si presenta quasi mai in forma esplicita: si maschera, si traveste, si legittima. Diventa antisionismo assoluto, moralismo selettivo, decolonialismo da social network. Non è un caso che i dati più allarmanti riguardino le fasce più giovani della popolazione, cresciute in ambienti informativi saturi di narrazioni tossiche, con una conoscenza sempre più debole della Shoah e una crescente familiarità con l’odio normalizzato. Il documento non si limita a registrare il fenomeno: lo assume come priorità strategica.
Da qui la scelta più controversa, e al tempo stesso più necessaria: definire. L’adozione esplicita e generalizzata della definizione IHRA di antisemitismo non è un dettaglio tecnico, ma l’architrave dell’intero impianto. Senza una definizione condivisa, sostiene il Piano, ogni politica è destinata al fallimento, perché l’antisemitismo prospera proprio nell’ambiguità, nel non detto, nella zona grigia in cui l’odio si traveste da critica legittima. Definire significa delimitare, distinguere, rendere possibile l’azione pubblica. È un atto politico, non burocratico.
Su questa base si costruisce un approccio sistemico: legge, istruzione, sicurezza, università, media, cultura, digitale, migrazione non sono compartimenti stagni, ma vasi comunicanti. È qui che il Piano segna un salto di qualità rispetto a molte strategie europee, spesso frammentarie o puramente simboliche. Non si limita a reprimere gli effetti, ma prova a intervenire sulle infrastrutture che rendono l’antisemitismo socialmente accettabile. Le università vengono chiamate per nome come luoghi critici, non per un riflesso autoritario, ma perché sono diventate in troppi casi spazi di normalizzazione dell’odio, dove studenti e docenti ebrei si trovano isolati, delegittimati, costretti al silenzio. Il Piano introduce strumenti di accountability, fino alla possibilità di incidere sui finanziamenti pubblici, rompendo un tabù che per anni ha protetto l’autonomia accademica anche quando degenerava in irresponsabilità politica.
Sul fronte della sicurezza, il documento prende atto di una realtà amara: le comunità ebraiche vivono sotto protezione permanente. Non lo celebra, non lo normalizza, ma lo considera un fallimento collettivo che va corretto alla radice. Allo stesso tempo, chiede un rafforzamento del coordinamento tra forze dell’ordine, intelligence e istituzioni, riconoscendo che l’antisemitismo è oggi una minaccia alla vita, non solo un problema di ordine pubblico. Nel mondo digitale, il Piano riconosce ciò che per anni è stato negato: le piattaforme non sono neutrali, ma amplificatori algoritmici dell’odio. Chiede regole, trasparenza, contrasto ai bot e alle reti coordinate, attenzione al ruolo dell’intelligenza artificiale come moltiplicatore di contenuti estremisti.
Ma il punto più delicato, e per questo più rilevante, riguarda il nodo dell’infiltrazione ideologica e finanziaria. Il Piano del Commonwealth, pur con il linguaggio prudente delle istituzioni, lascia intendere ciò che molti governi occidentali continuano a rimuovere: l’antisemitismo contemporaneo non è solo un problema culturale, è anche il prodotto di reti organizzate, spesso riconducibili all’orbita dei Fratelli Musulmani, capaci di operare attraverso fondazioni, ONG, centri di ricerca, associazioni studentesche e circuiti di finanziamento che attraversano il Commonwealth. Non è complottismo, ma analisi del potere. È l’uso sistematico delle libertà democratiche per erodere dall’interno i principi che le rendono possibili.
In questo senso, il Piano non difende soltanto gli ebrei australiani. Difende l’idea stessa di Stato liberale. La storia insegna che l’antisemitismo è sempre il primo segnale di cattura delle istituzioni: quando l’odio antiebraico diventa tollerabile, quando viene relativizzato, giustificato, minimizzato, significa che la democrazia ha già iniziato a cedere. È qui che la prospettiva di Setteottobre si innesta con naturalezza. Questo documento è importante perché rompe la comoda illusione che basti condannare a parole, commemorare, indignarsi a intermittenza. È importante perché afferma che la sicurezza delle comunità ebraiche non è una concessione, ma un indicatore della salute democratica. È importante perché individua nella penetrazione ideologica e finanziaria dei Fratelli Musulmani uno dei rischi strategici del presente, soprattutto in Paesi che condividono lingua, diritto e reti istituzionali come quelli del Commonwealth. È importante, infine, perché rimette la politica al centro: decidere, definire, escludere quando serve, assumersi il costo del conflitto.
In un tempo in cui l’Occidente sembra aver paura di difendere se stesso, il Piano del Commonwealth dice una cosa semplice e radicale: l’antisemitismo non è un’opinione, è un segnale di collasso. Setteottobre pubblica qui in allegato il Piano. Saremo gli unici a farlo, in Italia. E non è una buona notizia.
Emergenza antisemitismo, il documento ufficiale del Commonwealth
Emergenza antisemitismo, il documento ufficiale del Commonwealth

