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Elkana Bohbot, il video della crudeltà

Il racconto dell’ostaggio liberato: torture, fame e una messinscena di suicidio.

Shira Navon

Tempo di Lettura: 3 min
Elkana Bohbot, il video della crudeltà

Per oltre due anni Elkana Bohbot è stato tenuto in vita quel tanto che bastava. Non per pietà, ma per uso. Uso politico, mediatico, psicologico. Nel racconto che ha affidato alla stampa israeliana dopo la liberazione, Bohbot non parla solo di prigionia ma descrive un sistema costruito per spezzare l’essere umano e trasformarlo in un oggetto propagandistico nelle mani di Hamas.

Uno degli episodi più agghiaccianti riguarda un video mai diffuso, ma messo in scena dai suoi carcerieri. A lui e a un altro ostaggio – di cui non fa il nome – Hamas ha fatto credere di dover “recitare” un tentato suicidio. Li hanno picchiati, feriti apposta, ha fatto loro sanguinare le mani. L’obiettivo era simulare la disperazione, costruire un’immagine da spendere nella guerra delle immagini. Non è andata in onda, ma il fatto che sia stata pensata e preparata dice molto più di mille slogan.

Bohbot, 34 anni, era stato rapito il 7 ottobre 2023 al festival Supernova Music Festival, trasformato dai terroristi in una preda da mostrare. Lo dice lui stesso: non un’operazione militare, ma una battuta di caccia a esseri umani. Settantina di uomini armati che giravano tra i corpi, controllavano chi fosse ancora vivo, sparavano per finire il lavoro. Poi il trasferimento a Gaza, il tunnel, le catene.

Nei primi giorni, un tentativo disperato di fuga. Un piano quasi infantile e per questo tragico: sorprendere i terroristi mentre pregavano, salire sul tetto, sventolare un lenzuolo con una stella di David, segnalare un elicottero con una torcia. Non è successo nulla ma li hanno spostati sottoterra r da lì, nessuna uscita.

Il tunnel, racconta Bohbot, non è diverso da una tomba. Stessa assenza d’aria, stessa umidità, stessi vermi. L’unica differenza è il battito del cuore. Negli ultimi sei mesi la fame è diventata l’arma principale, una punizione pura. Se chiedeva da mangiare, lo costringevano a guardare video di propaganda: soldati israeliani uccisi,c issati come trofei.

La violenza non era solo fisica ma anche psicologica, tanto che gli hanno detto che sua madre era morta e che sua moglie lo aveva lasciato. Tutte bugie chirurgiche scelte per colpire i punti vitali. È questa la dimensione che spesso sfugge: la prigionia come laboratorio di annientamento mentale, non come semplice sequestro.

Oggi Bohbot è tornato a casa, vicino a Gerusalemme. Abbraccia suo figlio, che ha cinque anni e per due non ha avuto un padre. Dice che il ritorno non è una linea retta, ma una zona grigia. Vive ora per ora. C’è una madre malata, un rapporto da ricostruire, il desiderio elementare di una vita normale: una famiglia, una casa sicura, la possibilità di dormire senza paura.

Il suo racconto non chiede compassione ma chiede precisione. Perché qui non c’è nulla di simbolico o metaforico ma una macchina che tortura, affama e inscena la disperazione altrui per costruire messaggi politici. E c’è chi, fuori, continua a chiamarla “resistenza”. Un giorno o l’altro dovranno vergognarsi di quel che hanno detto.


Elkana Bohbot, il video della crudeltà
Elkana Bohbot, il video della crudeltà