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Ebrei cacciati dai Paesi arabi, negli Usa verso il riconoscimento di rifugiati

Shira Navon

Tempo di Lettura: 4 min
Ebrei cacciati dai Paesi arabi, negli Usa verso il riconoscimento di rifugiati

Settant’anni dopo uno degli esodi più imponenti e meno raccontati del Novecento, il Congresso americano si prepara a riconoscere ufficialmente ciò che la storia non dovrebbe più permettere di dimenticare: l’espulsione di quasi un milione di ebrei dai Paesi arabi e dall’Iran. Una risoluzione bipartisan, presentata dai deputati Debbie Wasserman Schultz e Craig Goldman, punta a istituire negli Stati Uniti il 30 novembre come Jewish Refugee Day, in parallelo con quanto Israele fa dal 2014.

Prima che i nazionalismi arabi si infiammassero e che la guerra del 1947–48 scardinasse gli equilibri della regione, le comunità ebraiche erano parte integrante del tessuto mediorientale. Vivevano a Baghdad, Damasco, Il Cairo, Tripoli, Sana’a, Aleppo, Addis Abeba, e persino a Teheran: comunità antiche, molte delle quali sorte prima dell’Islam, e spesso depositarie della parte più luminosa della cultura locale. Poi la frattura. Dopo il voto ONU del 1947 che prevedeva la nascita dello Stato di Israele, in diversi Paesi arabi esplosero pogrom, arresti, sequestri di beni, espulsioni collettive. In Iraq, nel 1950, fu approvata una legge che privò gli ebrei della cittadinanza e delle proprietà. In Egitto, nel 1956, migliaia di famiglie furono cacciate come “stranieri ostili”. In Libia, durante i pogrom del 1945 e 1948, furono uccisi decine di ebrei, bruciate sinagoghe e distrutti interi quartieri. In Yemen, i bambini venivano spesso sottratti alle famiglie in partenza. In Siria e in Marocco, l’emigrazione fu meno violenta ma comunque accompagnata da discriminazioni e confisca dei beni.

Il risultato complessivo parla di circa 850 mila persone costrette a fuggire tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, spesso con un bagaglio minuscolo e un documento che annullava la loro esistenza civile. La maggior parte trovò rifugio in Israele, contribuendo in modo decisivo alla nascita di un Paese giovane e poverissimo, costretto a integrare ondate di profughi in pochi anni.

La risoluzione presentata al Congresso vuole colmare un vuoto narrativo e politico. Non solo un giorno simbolico, ma un impegno esplicito: sostenere la sicurezza di Israele e delle comunità ebraiche nel mondo e promuovere programmi educativi sulla storia dei profughi ebrei dei Paesi arabi. Senza troppi giri di parole Wasserman Schultz ha detto che: “la loro capacità di resistere dimostra quanto sia straordinario che, nonostante tutto, il popolo ebraico sia riuscito a sopravvivere nella storia. Riconoscere questa giornata significa non permettere che questa tragedia venga dimenticata.”

Non è la prima volta che il Congresso affronta il tema. Già nel 2008 una risoluzione invitava le istituzioni americane a riconoscere anche i profughi ebrei dei Paesi arabi nelle discussioni internazionali sul Medio Oriente. Ma l’iniziativa attuale arriva in un contesto radicalmente diverso: un aumento globale dell’antisemitismo, tensioni interne che investono anche campus e media, e una crescente pressione politica perché le memorie parziali vengano finalmente ricomposte.

La proposta, come da prassi, è stata inviata alle commissioni competenti – Giustizia, Educazione e Affari Esteri – che dovranno esaminarla e decidere se sottoporla al voto della Camera. Ma il segnale politico è già chiaro. Perché se c’è un punto su cui la storia non deve più esitazioni, è che il dramma dei profughi ebrei del Medio Oriente non è un capitolo laterale, ma parte integrante del conflitto arabo-israeliano. Una parte che per decenni è stata silenziata per ragioni ideologiche, geopolitiche o semplicemente per indifferenza. Riconoscerla oggi, negli Stati Uniti,

ignifica non solo rendere giustizia a centinaia di migliaia di persone, ma ricordare che la storia del Medio Oriente non è mai stata un racconto univoco. E che ogni riconoscimento, quando arriva tardi, pesa due volte: per ciò che dice e per quanto è mancato nel dirlo.


Ebrei cacciati dai Paesi arabi, negli Usa verso il riconoscimento di rifugiati
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