«Una pace imposta è una guerra rinviata» scriveva Hannah Arendt, e mai come oggi quella frase sembra sussurrare inascoltata tra le macerie di Gaza e i missili sul nord di Israele. La tanto invocata soluzione dei Due Popoli, Due Stati è ormai diventata una formula magica, ripetuta come un mantra nei comunicati diplomatici, nei vertici europei, nei talk-show. Ma come ogni formula, anche questa rischia di diventare vuota se non è accompagnata da una vera condizione di realtà, da una maturazione storica e morale dei soggetti coinvolti.
Perché due Stati possano coesistere, devono prima esistere due popoli che si riconoscano reciprocamente. Oggi non è così. Lo Stato di Israele esiste, è una democrazia imperfetta ma solida, tecnologicamente avanzata, militarmente potente. Il popolo palestinese esiste anch’esso, ma non ha una rappresentanza politica univoca, né un progetto statuale condiviso. In Cisgiordania regna un’Autorità Nazionale Palestinese debole e corrotta. A Gaza governa Hamas, un gruppo jihadista che ha fatto dell’annientamento di Israele la sua ragion d’essere. Con chi si dovrebbe negoziare, dunque? Con chi ha giurato di voler sterminare l’altro?
Golda Meir, con l’amarezza di chi ha conosciuto la guerra e la paura, diceva: «La pace verrà quando gli arabi ameranno i loro figli più di quanto odino noi». Una frase dura, scomoda, ma ancora drammaticamente attuale. Le immagini di bambini usati come scudi umani, di tunnel scavati sotto scuole e ospedali, non sono incidenti della storia: sono la conseguenza di una cultura della morte, in cui la narrazione della lotta si nutre del sacrificio dei più fragili. Come si può pensare di costruire uno Stato su queste fondamenta?
Non basta tracciare due linee su una mappa per dividere i popoli. La soluzione dei due Stati, per essere reale, deve poggiare su quattro pilastri:
1. Sicurezza per Israele. Non relativa, non negoziabile. Uno Stato palestinese deve essere smilitarizzato e sottoposto a garanzie internazionali serie. Un razzo lanciato da un futuro “Stato palestinese” su Tel Aviv non può essere tollerato come “errore di gioventù”.
2. Riconoscimento reciproco. Lo Stato palestinese deve riconoscere Israele come Stato del popolo ebraico. Non basta accettarne l’esistenza “de facto”: serve un riconoscimento “de jure”, morale, culturale, storico. Come scrisse David Ben Gurion, «Noi non ci arrenderemo mai, perché abbiamo diritto a vivere come tutti gli altri popoli, nella nostra patria».
3. Fine della propaganda dell’odio. I libri di testo palestinesi devono cambiare. Le mappe senza Israele devono sparire. Le trasmissioni che celebrano i “martiri” suicidi non possono essere la voce dell’educazione. La riconciliazione parte dai banchi di scuola.
4. Una leadership legittima. Chi governa Gaza oggi ha le mani sporche del sangue del 7 ottobre. Una trattativa seria non può prescindere dalla messa al bando del terrorismo e dalla nascita di una nuova classe dirigente palestinese, autenticamente laica e pacifica.
Lo scrittore Abraham Yehoshua, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, disse con rassegnata lucidità: «La soluzione dei due Stati è l’unica giusta, ma il tempo per realizzarla non è ancora maturo. Il trauma è troppo vivo, la diffidenza troppo profonda». È una verità che fa male, ma che è indispensabile riconoscere. Accelerare il processo, cedere alla pressione internazionale, imporre la pace per decreto sarebbe come costruire un palazzo su un terreno franoso: prima o poi, crollerebbe.
Il futuro potrà essere binazionale solo se il presente cessa di essere binario. Non si può più ragionare in termini di colpa e vittima, carnefice e oppresso. Serve un salto concettuale. Serve, come scrive Yuval Noah Harari, «un nuovo paradigma di convivenza, che parta dalla consapevolezza che il dolore non è un patrimonio esclusivo». Israele non può rinunciare alla sicurezza. I palestinesi non possono rinunciare alla dignità. Ma nessuna delle due parti può avere tutto, né subito.
In questo senso, non è una resa sostenere che la pace non può venire ora. È un atto di responsabilità. Significa riconoscere che la pace non si firma con la penna, ma si coltiva nel tempo. Che servono generazioni educate al rispetto, non cresciute con la promessa del martirio. Che uno Stato, per nascere, deve avere fondamenta etiche prima che istituzionali.
La storia non si forza. Si prepara. E allora sì: due popoli, due Stati. Ma solo quando la realtà sarà pronta a sostenerli. E non a qualunque costo. Perché la vera pace è quella che entrambi i popoli potranno vivere senza paura, senza propaganda, senza illusioni. Non quella che si firma su un tappeto rosso tra due delegazioni irreconciliabili.
Perché, come scriveva Hannah Arendt, «il senso della politica è la libertà». E senza verità, senza memoria, senza giustizia, la libertà è un’illusione.
Due Popoli, Due Stati. Ma non adesso, e non a qualunque costo Due Popoli, Due Stati. Ma non adesso, e non a qualunque costo Due Popoli, Due Stati. Ma non adesso, e non a qualunque costo