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Dentro la mente del nemico: il coraggio silenzioso della Dott.ssa Yehoshua

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Dentro la mente del nemico: il coraggio silenzioso della Dott.ssa Yehoshua

Ci vuole una tempra speciale per sedersi davanti a un uomo che, in un’altra circostanza, ti avrebbe tagliato la gola senza battere ciglio e magari con un sorriso soddisfatto ad ornamento delle labbra. E non per accusarlo, non per condannarlo, ma per capirlo. La Dott.ssa Sagit Yehoshua vive precisamente qui, su questa linea sottile dove la lucidità non può cedere un millimetro e il giudizio deve restare fuori dalla stanza come un cappotto appeso all’ingresso. Il suo lavoro non consiste nell’assolvere o giustificare, ma nel penetrare quella zona oscura che separa l’ideologia dall’azione. Una zona dove spesso non metti piede neppure per immaginazione.

Criminologa e profiler, docente presso la Reichman University e membro dell’Istituto per la Politica Antiterrorismo, Yehoshua ha trascorso anni nelle carceri israeliane e poi nei centri europei, intervistando i terroristi più pericolosi di Hamas, Fatah, Jihad islamica e, più tardi, dello Stato Islamico. Ha parlato con uomini che hanno ucciso, pianificato massacri, guidato organizzazioni votate alla disumanizzazione dell’altro. Eppure, come racconta nel podcast One Day at a Time, il suo primo compito è stato spogliarsi delle proprie convinzioni: “Non posso essere Sagit, non posso essere me stessa. Devo diventare la persona che ho di fronte, anche se è uno stupratore, un serial killer o un terrorista.”

E si badi bene che non siamo di front a uno scampolo di romanticismo accademico. È invece tecnica, disciplina, un addestramento mentale che chiede di sospendere la reazione immediata – nausea, rabbia, disgusto – per osservare la struttura del pensiero. Ed è una scelta che comporta un rischio: quello di vedere negli occhi dell’altro una forma di coerenza, anche distorta e fanatica. Ma è proprio lì che nasce l’utilità del suo lavoro. Yehoshua non cerca l’alibi: cerca il movente, perché solo il movente permette di individuare chi verrà dopo.

Con i leader palestinesi – da Sinwar a Samir Kuntar – ha scoperto un tratto che disturba molti e che pure è essenziale capire: il loro non è il profilo del sociopatico. Non uccidono per compiacimento, né per pulsione antisociale. Agiscono convinti di servire un bene maggiore, di rispondere a un dovere storico. Una forma di altruismo distorto, ma reale, che smentisce la tesi comoda del “mostro irrazionale”. Yehoshua non li assolve, naturalmente. Ma smonta lo stereotipo che ci farebbe comodo per dormire meglio la notte. E questo, per chi è incaricato di prevenirne i successori, vale più di qualunque certezza morale.

In Europa, dove ha studiato i miliziani dell’ISIS, il quadro cambia radicalmente. Qui non c’è patria perduta o rivendicazione nazionale: c’è una crisi di identità profonda, soprattutto tra giovani di seconda o terza generazione che non sanno chi sono e accorrono verso l’unico luogo che promette appartenenza totale. Un vuoto che l’ISIS ha riempito offrendo status, fratellanza, certezza. Ed è per questo, spiega Yehoshua, che in Europa la recidiva è al tre per cento e in Israele al novanta: un’identità ferita può essere ricostruita; un’ideologia totalizzante, molto meno.
Poi c’è il presente. Il dopo 7 ottobre. “Sono una persona diversa”, dice Yehoshua. Come esserlo uguale, dopo aver visto cosa accade quando le teorie diventano stragi? Eppure continua. Va sulle scene degli attentati, osserva dettagli invisibili ai più, decifra posture, calma apparente, scatti d’ira, rituali. Ogni frammento è un indizio su chi bisogna ancora trovare e su come impedirgli di colpire di nuovo.

In un’epoca in cui è facile gridare alla semplificazione, alla vendetta immediata, alla scorciatoia del “tutti uguali”, il lavoro di Yehoshua è un atto di resistenza intellettuale e morale. Non perché assolve, ma perché capisce. Non perché giustifica, ma perché illumina ciò che preferiremmo ignorare. Senza questa lucidità, la sicurezza diventa cieca. Con essa, almeno, abbiamo una possibilità.

E ci vuole coraggio, un coraggio rarissimo, per continuare a guardare dentro l’abisso senza perdere la propria forma. Sagit Yehoshua lo fa ogni giorno, e per questo merita più di un grazie: merita attenzione, rispetto e ascolto. In un mondo che corre verso le semplificazioni, il suo è uno dei pochi lavori che ci costringe, finalmente, a pensare.


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