C’è un dato che dovrebbe scuotere l’intero sistema dell’informazione occidentale, e invece rimbalza tra un comunicato e l’altro come se fosse un dettaglio tecnico. Secondo un nuovo studio del Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center, circa il 60% dei presunti giornalisti uccisi nella guerra di Gaza non erano giornalisti, ma membri — attivi o affiliati — di Hamas, della Jihad Islamica e di altre organizzazioni terroristiche. Su 266 persone classificate come operatori dei media, almeno 157 risultano legate a gruppi armati. Non si tratta di infiltrazioni episodiche, ma di un sistema strutturato.
Del resto Hamas non lo ha mai nascosto. Nei documenti interni — alcuni rinvenuti dalle IDF nei bunker della Striscia — il personale dei media è considerato parte del “sistema di lotta per la consapevolezza”: tradotto, chi tiene in mano una telecamera serve la causa militare tanto quanto chi imbraccia un fucile. La doppia identità non è un’anomalia, è un metodo. Il tesserino stampa diventa un lasciapassare: permette di muoversi nelle zone dei combattimenti, raccogliere informazioni, coprire attività operative e, quando serve, partecipare direttamente agli attacchi.
Lo studio elenca nomi, affiliazioni, ruoli. È un archivio, non un’opinione. Ci sono reporter di Al-Jazeera immortalati mentre siedono accanto ai capi di Hamas; infiltrati del 7 ottobre che filmavano carri armati in fiamme mentre partecipavano al massacro; dronisti che operavano sotto copertura di troupe televisive. Persino figure che, dopo aver collaborato con Hamas, sono state assunte da importanti testate internazionali prima che emergesse la loro vera identità.
Questo corto circuito è devastante: mina la fiducia nella stampa e mette in pericolo i giornalisti veri, quelli che non portano in tasca un mandato di un’organizzazione armata. Se la distinzione tra reporter e combattente diventa impossibile, chi lavora sul fronte rischia di pagare per le scelte altrui. Il danno è etico, professionale, umano.
C’è poi un dato politico. Per un anno molte redazioni e sindacati europei hanno parlato di “strage di giornalisti”, accusando Israele di colpire la libertà di stampa. La realtà — documentata e verificabile — è diversa. Gli eserciti distinguono tra personale giornalistico e operativi armati. Ma quando i secondi indossano i panni dei primi, quella distinzione salta. E il racconto pubblico ne esce falsato, manipolato, spesso in malafede.
Alla luce di tutto questo una domanda è inevitabile: dove sono oggi le voci indignate che per mesi hanno denunciato un presunto attacco sistematico alla stampa? Possibile che la scoperta che oltre metà delle vittime classificate come giornalisti fossero in realtà miliziani non meriti nemmeno un commento? Ci si aspetterebbe almeno una nota dal sindacato dei giornalisti italiani. Non per difendere Israele, ma per difendere la professione stessa, che non può accettare di essere utilizzata come scudo da chi pianifica attentati.
La guerra a Gaza ha rivelato molte zone d’ombra. Questa è una delle più inquietanti: un mondo dell’informazione incapace di riconoscere i propri confini e troppo spesso pronto a ripetere versioni prefabbricate. La verità, invece, sta altrove: scomoda, opaca, ma finalmente documentata.
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Delitti e bugie. A Gaza il tesserino stampa diventa un’arma
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