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Dalla California a Bondi Beach: quando il complotto diventa istituzionale

Rosa Davanzo

Tempo di Lettura: 3 min
Dalla California a Bondi Beach: quando il complotto diventa istituzionale

C’è un momento preciso in cui il confine tra opinione personale e irresponsabilità pubblica viene superato. È il momento in cui un rappresentante eletto rilancia, legittima e normalizza una teoria del complotto apertamente antisemita, attribuendo a Israele un attentato avvenuto durante una celebrazione di Hanukkah. È quanto accaduto in questi giorni a Richmond, in California, dove il sindaco Eduardo Martinez si è trovato al centro di una bufera politica e morale dopo aver condiviso sui social contenuti che definivano l’attacco di Bondi Beach una “false flag” israeliana.

La reazione non si è fatta attendere. Il Jewish Community Relations Council of the Bay Area ha chiesto formalmente le sue dimissioni, parlando di dichiarazioni “pericolosamente antisemite, profondamente offensive e del tutto inaccettabili”. Parole pesanti, e non frequenti: è raro che un’organizzazione ebraica arrivi a chiedere la testa politica di un amministratore locale. Ma qui il punto non è il dissenso su Israele. È la trasformazione di un massacro in un pretesto ideologico, la rimozione delle vittime, la sostituzione dei fatti con la paranoia.

L’attacco di Bondi Beach, avvenuto a Sydney durante una celebrazione ebraica, ha lasciato sul terreno quindici morti e decine di feriti. Le autorità australiane hanno parlato chiaramente di matrice jihadista, riconducibile all’ideologia dello Stato Islamico. Eppure, a poche ore di distanza, online si è scatenato un flusso di odio che ha ribaltato la realtà: non più ebrei colpiti, ma Israele colpevole; non terrorismo islamista, ma manipolazione sionista. Martinez non ha creato quelle teorie, ma le ha rilanciate dal suo profilo LinkedIn, conferendo loro un sigillo istituzionale.

Tra i post condivisi, uno sosteneva che “la radice dell’antisemitismo è il comportamento di Israele e degli israeliani”. Un altro metteva sullo stesso piano una celebrazione di Hanukkah a Bondi Beach e una ipotetica celebrazione ebraica sulla Spianata delle Moschee, definendole entrambe “affermazioni performative di dominio”. Hanukkah, si leggeva, sarebbe stata “appropriata da organizzazioni sioniste” e trasformata in un’arma politica. Martinez accompagnava il tutto con un ambiguo: “Cosa ne pensate?”.

Il problema non è solo ciò che è stato scritto, ma chi lo ha scritto. Un sindaco non è un utente qualsiasi. Quando parla, anche sui social, lo fa da una posizione di potere. E quando quelle parole fanno sentire una parte della cittadinanza “insicura e abbandonata”, come ha sottolineato il JCRC, la questione smette di essere privata.

Le scuse arrivate in seguito, in due messaggi distinti, non hanno spento l’incendio. Martinez ha parlato di fretta, di mancanza di riflessione, ha ribadito la distinzione tra sionismo ed ebraismo e ha tentato di separare le sue opinioni personali dalla carica pubblica. Ma è proprio questa separazione a risultare sempre più fragile nell’epoca dei social. La retorica dell’“ho solo condiviso” non regge più, soprattutto quando a condividerla è un sindaco eletto.

Il caso di Richmond è emblematico di una deriva più ampia. L’antisemitismo contemporaneo non ha sempre il volto dell’insulto diretto o della svastica. Spesso passa attraverso il linguaggio del complotto, della demonizzazione di Israele, della colpevolizzazione collettiva. E trova nei social un acceleratore formidabile, capace di trasformare una menzogna in verità percepita nel giro di poche ore.

Non è solo un problema americano. È un segnale globale: quando il pregiudizio entra nelle istituzioni, smette di essere marginale e diventa norma, o quantomeno rumore di fondo accettabile. È questo, più delle singole frasi, il nodo che la vicenda Martinez costringe ad affrontare. In gioco non è la libertà di critica, ma la responsabilità di chi governa.


Dalla California a Bondi Beach: quando il complotto diventa istituzionale
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