L’attentato antisemita di Sydney non è arrivato dal nulla. Non è un gesto isolato, né l’atto folle di un singolo. È il punto di caduta di un clima, il prodotto finale di un linguaggio che per mesi è stato tollerato, giustificato e normalizzato. A dirlo non è un osservatore occidentale, ma una voce che viene dall’interno stesso del jihadismo palestinese: Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei fondatori di Hamas ed ex membro dell’organizzazione terroristica.
All’indomani dell’attacco, Yousef ha lanciato un allarme netto: “La caccia agli ebrei è iniziata”. Un’espressione brutale, che però descrive con lucidità ciò che sta accadendo. Secondo lui, l’aggressione di Sydney è la manifestazione concreta di un processo più ampio, che definisce senza ambiguità “globalizzazione dell’intifada”. Uno slogan che per anni è stato scandito nelle piazze e nei campus occidentali, presentato come militanza politica, e che oggi si traduce in violenza fisica contro comunità ebraiche lontane migliaia di chilometri dal Medio Oriente.
Le indagini australiane confermano che quella violenza non è stata improvvisata. I responsabili del massacro di Hanukkah a Bondi Beach, Sajid Akram e suo figlio Naveed, si stavano preparando da settimane. Addestramento con armi da fuoco in zone isolate del Nuovo Galles del Sud, sopralluoghi accurati sul luogo dell’attacco, riprese video in cui padre e figlio si mostrano accanto a una bandiera dell’ISIS, recitano versetti del Corano e condannano quelle che definiscono “le azioni dei sionisti”. Non un’esplosione emotiva, ma un’azione terroristica pianificata, ideologicamente motivata e rivendicata nel linguaggio del jihad globale.
Due giorni prima della strage, i due avevano già pattugliato il ponte da cui avrebbero poi aperto il fuoco contro la folla radunata per la celebrazione di Hanukkah. Il giorno dell’attacco, dopo aver lanciato quattro ordigni esplosivi improvvisati – rimasti inesplosi solo per caso – hanno iniziato a sparare con tre fucili contro centinaia di persone. Quindici morti, decine di feriti. Un massacro.
È qui che le parole di Yousef trovano il loro riscontro più inquietante. Dopo il 7 ottobre, spiega, accuse come “genocidio”, “pulizia etnica”, “colonialismo” sono state ripetute ossessivamente contro Israele, senza alcun ancoraggio ai fatti. Non per comprendere una guerra, ma per costruire un’immagine morale assoluta: Israele come male radicale. Il risultato non è solo la delegittimazione di uno Stato, ma la disumanizzazione di chi lo abita. E quando un popolo viene disumanizzato, la violenza contro di esso smette di sembrare un tabù. “Quando il falso diventa un dogma, la violenza ne consegue”, avverte Yousef.
C’è poi un altro punto che in Occidente viene sistematicamente rimosso. Israele, ricorda l’ex militante di Hamas, non ha scelto la guerra a Gaza. Dopo il massacro del 7 ottobre ha mandato i suoi soldati migliori in uno scenario deliberatamente trasformato in trappola, dove Hamas combatte dall’interno di quartieri civili, ospedali, scuole, usando la popolazione come scudo umano. Una guerra che nessuno in Israele considerava desiderabile, né tantomeno celebrabile, e che è costata la vita a molti soldati. Il rifiuto di riconoscere questa realtà ha avuto conseguenze dirette. Parti del mondo politico, mediatico e militante occidentale hanno preferito ignorare la natura di Hamas, riducendo il conflitto a una favola morale con buoni e cattivi preconfezionati. Così facendo, volontariamente o meno, si sono trasformati in amplificatori ideologici della violenza. Non solo contro Israele, ma contro gli ebrei in quanto tali.
Sydney, allora, non è un’eccezione. È un segnale. È la traduzione pratica di anni di slogan, di ambiguità, di cecità deliberata. E ignorarlo, ancora una volta, significa accettare che l’odio continui a viaggiare indisturbato, fino a colpire dove trova un bersaglio vulnerabile. Anche molto lontano da Gaza.
Da Sydney al mondo: quando l’odio contro Israele diventa caccia agli ebrei
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