All’Assemblea generale dell’ONU di quest’anno, tra gli applausi per la Francia che ha riconosciuto lo Stato di Palestina e le accuse incrociate sul Medio Oriente, è passato quasi inosservato un discorso diverso, più nudo e più vero. Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix-Antoine Tshisekedi, ha preso la parola con la voce rotta e gli occhi lucidi per chiedere una cosa soltanto: che il mondo riconosca il genocidio in corso nel suo paese.
Da decenni, l’est del Congo è un territorio divorato da guerre invisibili, alimentate da una miriade di gruppi armati, milizie, mercenari e potenze confinanti. Lì si combatte per l’oro, il coltan, il rame e il cobalto che nutrono la nostra economia digitale. Si stima che oltre quattro milioni di persone siano morte in venticinque anni di violenze, carestie e malattie. È la guerra più sanguinosa dalla Seconda guerra mondiale, ma quasi nessuno la guarda.
“Riconoscete il genocidio congolese”, ha implorato Tshisekedi. Non era una richiesta retorica, ma il grido di un paese che chiede di essere visto. “Vogliamo contribuire alla pace nel mondo, ma la pace comincia dal riconoscimento della nostra tragedia.” L’aula ha ascoltato in silenzio, poi è passata oltre.
Il contrasto con le tempeste mediatiche su Israele e Gaza è crudele. Per alcuni, pronunciare la parola genocidio è un esercizio politico; per altri, una condanna selettiva. Nel caso del Congo, invece, la parola è bandita, come se l’eccesso di morti togliesse senso al dolore. Milioni di corpi non commuovono nessuno, non fanno sfilare cortei, non generano appelli, non accendono bandiere nei cortei europei.
Il dramma del Congo è un buco nero morale e geopolitico. Non è una guerra ideologica, non ha un nemico unico, non offre slogan ma una somma di predazioni: Stati vicini che sfruttano le miniere, multinazionali che chiudono gli occhi, signori della guerra che si arricchiscono, un’ONU presente da anni ma incapace di contenere l’orrore. Il risultato è un paese immenso, pieno di ricchezze e di fantasmi, dove la pace è solo una tregua tra due saccheggi.
Eppure, il discorso di Tshisekedi tocca anche noi. Perché riguarda il modo in cui scegliamo le tragedie da ricordare e quelle da ignorare. Ciò che commuove l’Occidente non è la sofferenza, ma la sua rappresentazione. Lì dove non ci sono telecamere né bandiere, il dolore non esiste. Eppure, il Congo è il nostro specchio più fedele: la prova che la compassione selettiva è una forma di complicità. Ciò che serve, oggi, non è solo indignazione, ma onestà. Riconoscere che ogni smartphone contiene una parte di quella guerra. Che ogni silenzio la prolunga. E che l’unico modo per restituire dignità a quei morti è pronunciarne il nome senza paura: genocidio. Non per pietà, ma per verità.
Congo. Il genocidio che nessuno vuole vedere
Congo. Il genocidio che nessuno vuole vedere