È impossibile affrontare la questione della lotta all’antisemitismo senza considerare quanto accaduto in Israele e nel mondo a partire dalla tragica data del 7 ottobre 2023, che rappresenta un orribile spartiacque nella nostra storia recente.
L’atroce massacro di ebrei perpetrato da Hamas, gli stupri, le torture, il vilipendio e lo sfregio delle vittime e dei sopravvissuti, il rapimento di centinaia di innocenti che hanno sopportato mesi di prigionia e, in molti casi, hanno perso la vita senza rivedere i propri cari, non sono solo una tragedia senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Sono un brutale monito sul futuro che ci attende se non resteremo uniti nella difesa dei valori etici e morali che sono il fondamento della nostra civiltà.
Il 7 ottobre avrebbe dovuto scatenare un’ondata di solidarietà con Israele e il popolo ebraico, ancora una volta esposto alla persecuzione più atroce.
Quella tragedia avrebbe dovuto rafforzare a tutti i livelli – dai governi ai parlamenti, dalle istituzioni culturali e accademiche al mondo scientifico, dai media all’opinione pubblica – la determinazione a combattere la discriminazione e l’odio contro gli ebrei, sia che abbiano scelto di vivere in Israele, sia che, insieme a noi, contribuiscano alla vita politica, sociale e civile dei nostri Paesi.
Sta accadendo esattamente l’opposto.
A un’immediata, ma effimera, solidarietà con Israele hanno fatto rapidamente seguito diversi tentativi di collocare l’attacco terroristico in un quadro più ampio, in un contesto storico manipolato e falsificato in cui il popolo ebraico è ritratto come intrinsecamente oppressivo e quindi essenzialmente come il principale colpevole della diffusione della violenza contro se stesso.
Mai Israele è stato così isolato nel mondo e stigmatizzato da coloro che non vedono, o non vedono più, i crimini efferati commessi il 7 ottobre come una sanguinosa manifestazione di odio antisemita, ma piuttosto come l’espressione giustificabile di una lotta per la liberazione nazionale.
Da queste premesse è nata l’ondata di antisemitismo che sta travolgendo tutti i nostri Paesi e che ricorda la violenza e le menzogne che hanno aperto la strada all’Olocausto in Europa il secolo scorso.
Gli appelli a liberare la Palestina dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, ovvero a cancellare lo Stato ebraico dalla mappa, vengono contrabbandati nei media, nelle università e nelle scuole, negli eventi artistici e sportivi e, in breve, nell’immaginario collettivo, come fossero appelli alla pace e alla fratellanza tra i popoli.
Il risultato di questa strategia comunicativa è che nessun ebreo è più al sicuro nel nostro mondo, in quell’Occidente che ci siamo illusi comprendesse e condividesse i valori del rispetto della dignità e della libertà di ogni essere umano.
Ogni ebreo, per il solo fatto di essere ebreo, è ritenuto responsabile di ciò che accade alla popolazione di Gaza in una revisione della storia passata e recente di Israele che usa ogni mezzo per confondere le vittime con gli assassini, le cause profonde con gli effetti, i costruttori di pace, come gli israeliani assassinati nei loro kibbutz il 7 ottobre, con i seminatori di odio.
L’antisemitismo ha radici antichissime. Molti lo hanno giustamente definito come la più antica forma di razzismo, che si è manifestata in varie fasi della storia europea sotto forma di persecuzioni, violenze e odiose discriminazioni.
L’Italia e la Germania hanno delle responsabilità particolari in questo ambito, a causa del loro tragico passato storico.
È quindi naturale che abbiano assunto un ruolo di primo piano a livello nazionale e internazionale, promuovendo leggi capaci di individuare e perseguire comportamenti e dichiarazioni ispirati dall’odio verso gli ebrei e volti a negare l’orribile realtà dell’Olocausto, e impegnandosi in prima linea nella difesa del diritto di Israele a esistere e a vivere in pace e sicurezza in tutti i fori internazionali.
Eppure oggi, in molti Paesi, compreso il nostro, assistiamo alla diffusione di appelli a emarginare e stigmatizzare chiunque affermi di essere ebreo, utilizzando tutti gli strumenti messi a disposizione dalle moderne tecnologie di comunicazione.
In generale, nessun antisemita ammette di esserlo e quindi il fenomeno, anche quando raggiunge proporzioni innegabili, viene sottovalutato o addirittura negato nel dibattito pubblico.
Eppure, nei nostri paesi occidentali, giustamente preoccupati di difendere i diritti di tutte le minoranze, delle fasce più vulnerabili della popolazione, delle diverse identità sessuali, nonché di promuovere pari opportunità per uomini e donne, quando il popolo ebraico è vittima di violenza, assistiamo a ripetuti tentativi di distinguere, contestualizzare e relativizzare quanto accaduto, o addirittura di collegarlo alle politiche del governo israeliano.
Ovviamente, è sempre possibile e legittimo criticare la condotta politica dell’attuale governo israeliano. Del resto, è quanto già fanno migliaia di cittadini israeliani, grazie alla natura democratica del Paese.
Ciò che oggi colpisce, tuttavia, sono i subdoli tentativi di accusare il popolo ebraico degli stessi crimini subiti nel secolo scorso, con il chiaro obiettivo di offuscare la nozione di genocidio, cancellare il passato, riscrivere la storia, negare la verità, per potersi finalmente dichiarare orgogliosamente antisionisti.
E’ questo una nuova definizione nel vocabolario degli attacchi politici e mediatici all’ebraismo, che, nelle intenzioni dei suoi autori, dovrebbe consentire di rimanere su un terreno politicamente corretto, evitando al contempo accuse di antisemitismo.
Al contrario: negare la natura liberale e democratica del movimento sionista, cioè l’aspirazione del popolo ebraico all’autodeterminazione e al ritorno nella Terra dei Padri, non è altro che l’ennesima manifestazione di odio verso il popolo ebraico e la negazione dello straordinario ruolo che esso ha svolto nel plasmare la civiltà occidentale come oggi la conosciamo.
Ognuno di noi ha il dovere di reagire, prima che sia troppo tardi, ristabilendo la verità, difendendo i nostri valori comuni di libertà e democrazia che il popolo ebraico ha contribuito a sviluppare in questa parte del mondo.
Dobbiamo riaffermare, innanzitutto alle giovani generazioni, quanto sarebbe impossibile e contraddittorio espellere la tradizione e la cultura ebraica dal terreno fertile su cui sono cresciuti gli ideali democratici e liberali dell’Europa e dell’Occidente.
Vorrei concludere ricordando ciò che disse Eli Wiesel dopo il processo Eichmann: “Pensavamo che se avessimo semplicemente raccontato la storia, il mondo sarebbe cambiato. Ebbene, lo abbiamo fatto, e il mondo è rimasto lo stesso”.
Tali parole pesano sulla nostra coscienza come pietre.
Non possiamo e non dobbiamo rinunciare a lottare per preservare la nostra identità e la dignità di tutti gli esseri umani.
È giunto il momento di ricordare che nessuna società può essere considerata libera e sicura finché ogni suo membro non sia ugualmente libero e sicuro.
Australia. L’antisemitismo e le scoperte in ritardo
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