Più di duecento tra scrittori, registi, attori e musicisti hanno firmato un appello internazionale per chiedere la liberazione di Marwan Barghouti, presentato — con un azzardo retorico ormai consumato — come il “Mandela palestinese”. Tra i nomi spiccano Margaret Atwood, Philip Pullman, Zadie Smith, Annie Ernaux, Ian McKellen, Benedict Cumberbatch, Tilda Swinton, Mark Ruffalo, Sting, Paul Simon, Stephen Fry, Richard Branson; la stampa spagnola aggiunge Pedro Almodóvar, Javier Bardem e Javier Cercas.
La storia, sempre uguale a se stessa e ormai logora, racconta del grande prigioniero politico, del leader dal volto umano che potrebbe “unire i palestinesi” e rilanciare la pace, se solo Israele lo liberasse. Peccato che gli artisti firmatari omettano — o fingano di omettere — un dettaglio decisivo: Marwan Barghouti non è in carcere per un tweet, per un articolo scomodo, né per aver organizzato una marcia pacifica.
Barghouti è stato condannato da un tribunale civile israeliano per cinque omicidi e vari reati legati al terrorismo durante la Seconda Intifada. La corte lo ha ritenuto responsabile di aver ordinato gli attacchi che uccisero un monaco greco-ortodosso in Cisgiordania nel 2001, un automobilista israeliano vicino all’insediamento di Givat Zeev nel 2002 e tre civili al ristorante Seafood Market di Tel Aviv, in un assalto con fucili e bombe a mano che ferì decine di persone.
Non è tutto. È stato condannato anche per tentato omicidio legato a un’auto-bomba esplosa prematuramente nei pressi del centro commerciale Malha e per appartenenza a un’organizzazione terroristica, le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (Tanzim).
Cinque ergastoli consecutivi più 40 anni aggiuntivi: non un equivoco giudiziario, non un caso ambiguo. Una carriera di violenza organizzata, mai rinnegata. Non un perseguitato politico: un uomo responsabile di sangue.
Ed è un punto fondamentale: in qualunque democrazia occidentale — Stati Uniti, Francia, Italia, Germania — Barghouti avrebbe ricevuto pene analoghe, forse persino più dure. Dipingerlo come vittima di un’ingiustizia è un esercizio di revisionismo funzionale solo alla narrazione patinata, ma vuota, di Hollywood.
C’è però qualcosa di ancora più grave che rende questa petizione non solo sbagliata, ma indecente. In questo momento l’ONU — non Israele, non gli Stati Uniti, non solo i Paesi arabi moderati — chiede esplicitamente all’Autorità Nazionale Palestinese di riformarsi: eliminare l’odio antiebraico dai programmi scolastici, abbandonare il culto del martirio, smettere di finanziare chi compie attentati. È un passaggio storico, forse l’unica chance per far emergere una leadership palestinese nuova, credibile, capace di guidare il proprio popolo fuori dal vicolo cieco dell’estremismo.
Ed è precisamente in questo momento che Hollywood decide di indicare come “leader giusto” un uomo condannato a cinque ergastoli.
Bisogna chiedersi: quanto razzismo serve per arrivare a un simile paternalismo?
Perché in questo gesto c’è un pregiudizio sottile, tossico: l’idea che i palestinesi non possano esprimere una leadership diversa dalla violenza; che siano destinati a riconoscersi solo in chi ha costruito la propria carriera politica sul terrorismo; che gli occidentali progressisti, dopo aver fallito ogni analisi sul Medio Oriente, abbiano comunque il diritto di scegliere per loro il futuro.
La verità, semplice e scomoda, è che il leader che guiderà i palestinesi fuori dall’odio lo sceglieranno i palestinesi stessi, non un gruppo di narcisisti ben pettinati dell’entertainment internazionale.
La domanda dunque non è: Perché chiedono la liberazione di Barghouti?
La domanda vera, più inquietante, è: che cosa pensano davvero questi attori del popolo palestinese?
Perché se immaginano i palestinesi incapaci di generare una leadership non corrotta dal terrorismo, allora il problema non è solo la loro ignoranza.
È il loro pregiudizio.
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